BAIL IN – Legittimazione passiva UBI – azione risarcitoria di azionista di Banca Marche.

28.2.2019 Corte d’Appello Milano – Sez. spec. Impresa – Sent. 917/2019 Pres. Est. Bonaretti.

04/03/2019

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con atto di citazione notificato in data 3.5.2016 i signori X e Y e la società Z convenivano in giudizio dinnanzi al Tribunale di Milano Nuova Banca delle Marche (NBDM) e PricewaterhouseCoopers s.p.a. (PwC), chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti. Gli attori affermavano di aver sottoscritto, in occasione dell’aumento di capitale eseguito nel 2012 dall’allora Banca delle Marche S.p.A. (Vecchia BDM o BDM), un certo numero di azioni al prezzo di euro 0,85 ciascuna e sostenevano di essere stati indotti a compiere l’acquisto dai dati del bilancio e dalle indicazioni esposte nel prospetto di offerta. Tali informazioni, peraltro, si erano poi rivelate completamente inattendibili, producendo in capo ai soci un danno patrimoniale pari a complessivi euro N.N.. In relazione al pregiudizio lamentato, essi attribuivano la responsabilità a Vecchia BDM (e quindi a NBDM, succeduta alla prima), cui ritenevano imputabili le errate stime del bilancio, nonché a PwC, in qualità di revisore legale dei conti allora incaricato, che non avrebbe adeguatamente vigilato sulla corretta applicazione dei criteri di tenuta delle scritture contabili 1. Per tali motivi chiedevano la condanna delle convenute, in solido tra loro, al pagamento delle somme di euro N.N. a favore di X e di euro N.N. a favore di Y e di euro N.N. a favore di soc. Z (il tutto oltre interessi legali e rivalutazione monetaria). NBDM e PwC si costituivano in giudizio chiedendo il rigetto delle domande attoree. La prima lamentava innanzi tutto la propria carenza di legittimazione passiva: Nuova BDM, in quanto-banca ponte originata dalla procedura di risoluzione regolata dal D.lgs. 16 novembre 2015, n. 180, e dal provvedimento di Banca d’Italia del 22.11.20152, sosteneva di essere un soggetto giuridico del tutto nuovo rispetto alla vecchia BDM e affermava dunque di non essere succeduta a quest’ultima nell’obbligazione risarcitoria azionata dagli attori. Il Tribunale di Milano, in composizione collegiale, con sentenza non definitiva n. 11173 resa in data 8.11.2017 rigettava l’eccezione di carenza di legittimazione passiva sollevata da NBDM, ritenendo che il credito risarcitorio vantato dagli attori dovesse ritenersi incluso nel novero delle passività cedute all’ente ponte, e disponeva, mediante separata ordinanza, la prosecuzione del giudizio. In particolare, il giudice di primo grado osservava come il credito vantato dagli attori, non concernendo diritti incorporati nelle azioni, ma richieste risarcitorie derivanti da responsabilità ex art. 94 TUF, non potesse ritenersi azzerato unitamente alle azioni di BDM, ma dovesse considerarsi ricompreso nell’oggetto della cessione. A tal proposito, il Tribunale richiamava anche la normativa sopravvenuta, relativa alle c.d. Banche Venete, contenente una disposizione espressa volta a escludere dalla cessione pretese risarcitorie facenti capo anche agli azionisti-investitori: normativa che dimostrerebbe che, quando il legislatore ha voluto estromettere tali pretese, lo ha fatto espressamente. Il primo giudice, inoltre, non riteneva condivisibili le considerazioni di NBDM relative all’applicabilità al caso di specie della diversa disciplina di cui all’articolo 2560 c.c, reputando la disposizione codicistica incompatibile sia con la disciplina speciale contenuta nel provvedimento di Banca d’Italia e nel d.lgs. 180/2015, sia con l’articolo 58 TUB, relativo alla cessione di rapporti giuridici a banche. UBI Banca, in quanto successore universale di NBDM, con atto di citazione notificato in data 23.3.2018, impugnava la suddetta sentenza non definitiva, lamentando: 1. l’errata interpretazione del provvedimento di Banca d’Italia del 22 novembre 2015, con cui è stato disposto il trasferimento dell’azienda BDM all’ente- ponte nuova BDM, e del d.lgs. 180/2015; 2. l’errata interpretazione e applicazione della normativa di cui al d.lgs. 180/2015 e dell’articolo 58 TUB, da cui è derivata l’inapplicabilità dell’articolo 2560 c.c. X, Y e Z si costituivano anche nel giudizio di appello, eccependo l’infondatezza del gravame e domandandone, pertanto, il rigetto. Anche PWC si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto dell’appello e la conferma della sentenza impugnata. Precisate le conclusioni come in epigrafe, assegnati dalla Corte i termini per il deposito degli scritti conclusivi, la causa è stata trattenuta e giunge ora in decisione. MOTIVI DELLA DECISIONE Con il primo motivo di appello UBI Banca lamenta l’errata interpretazione del d.lgs. 180/2015 e del provvedimento di Banca d’Italia del 22 novembre 2015. Secondo l’appellante, il giudice di primo grado, affermando che le pretese risarcitorie vantate dagli attori devono considerarsi incluse nel novero delle passività cedute all’ente ponte, avrebbe fornito un’interpretazione contraria alla lettera e alla ratio della normativa: in particolare, tale tesi sarebbe incompatibile con quanto disposto dagli articoli 43 e 47 del d.lsg. n. 180 e dagli articoli 1 e 3 del provvedimento attuativo di Banca d’Italia. La Corte ritiene condivisibili le doglianze dell’appellante. Al riguardo, pare opportuno prendere le mosse dall’esame del dato letterale. Il testo dell’articolo 43 del d.lgs. n. 180/2015 afferma che: “1. la cessione, in una o più soluzioni, a un ente-ponte ha ad oggetto: a) tutte le azioni o le altre partecipazioni emesse da uno o più enti sottoposti a risoluzione, o parte di esse; b) tutti i diritti, le attività o le passività, anche individuabili in blocco, di uno o più enti sottoposti a risoluzione, o parte di essi. 2. Il valore complessivo delle passività cedute all’ente ponte non supera il valore totale dei diritti e delle attività ceduti o provenienti da altre fonti”. A tali disposizioni dà attuazione, tra gli altri, l’art. 1.1 del provvedimento di Banca d’Italia (cfr. doc. 28 fascicolo appellati) secondo cui: “…tutti i diritti, le attività e le passività costituenti l’azienda bancaria della banca in risoluzione, ivi compresi […] i giudizi attivi e passivi, incluse le azioni di responsabilità risarcitorie e di regresso, in essere alla data di efficacia della cessione sono ceduti all’ente ponte”. Orbene, la norma include espressamente nella cessione le azioni di responsabilità risarcitoria, ma esclusivamente nell’ipotesi in cui esse risultino già in essere: secondo gli appellati tale presupposto sarebbe integrato nel caso di specie, essendo il credito da loro vantato sorto antecedentemente alla data di efficacia della cessione e precisamente nel momento in cui essi hanno effettuato l’acquisto delle azioni successivamente annullate. La Corte ritiene che la disposizione esiga, piuttosto, l’avvenuto esperimento delle azioni alla data di efficacia della procedura di risoluzione3: dunque, con argumentum a contrario, sembra potersi sostenere che le pretese risarcitorie non ancora azionate al momento dell’emanazione del provvedimento di cessione non possono essere fatte valere successivamente. Nel caso di specie gli odierni appellati hanno agito nei confronti della Banca soltanto in data 3.5.2016, quindi circa sei mesi dopo l’inizio della procedura di risoluzione: a novembre 2015 le pretese qui vantate costituivano passività meramente potenziali, passività non ancora accertate né azionate, ossia non in essere, al momento della cessione, e che dunque non possono considerarsi trasmesse all’ente-ponte. Inoltre, sempre considerando la lettera delle disposizioni, la Corte reputa altrettanto rilevante l’articolo 1 c. 2 del provvedimento della Banca d’Italia, che recita: “la cessione comprende gli eventuali diritti risarcitori che dovessero essere azionati dalla Banca cedente nei confronti degli ex esponenti aziendali, del soggetto incaricato della revisione legale dei conti e di ogni altro soggetto responsabile dei danni patrimoniali alla stessa arrecati […]”. Il fatto che vengano espressamente menzionate le azioni esperibili dalla Banca nei confronti di altri soggetti, ma che, al contrario, non vi sia alcun riferimento alle pretese vantate da azionisti o obbligazionisti nei confronti della Banca induce a ritenere che tali ultime pretese non siano ricomprese nel perimetro della cessione e che dunque non possano essere fatte valere nei confronti dell’ente-ponte cessionario. In ogni caso, anche a prescindere dalle precedenti considerazioni, la Corte osserva come tanto l’articolo 47 c. 7 del d.lgs. n. 180/2015, quanto l’articolo 3 del provvedimento della BdI, affermino che: “…gli azionisti, i titolari di altre partecipazioni, i creditori della banca in risoluzione e gli altri soggetti i cui diritti, attività e passività non sono oggetto di cessione, non possono esercitare pretese sui diritti, sulle attività e sulle passività oggetto della cessione e nei confronti dei membri degli organi di amministrazione e controllo o dell’alta dirigenza dell’ente ponte”. Orbene, le pretese cui si fa riferimento nel presente giudizio sono necessariamente pretese che non riguardano in modo diretto le azioni o gli strumenti finanziari, dal momento che la procedura di risoluzione prevede l’azzeramento del capitale sociale con conseguente perdita dei diritti patrimoniali degli azionisti: le norme paiono piuttosto volte a precludere la possibilità di far valere in giudizio nei confronti della nuova Banca qualunque altra pretesa connessa alla qualità di azionista, comprese dunque quelle risarcitorie legate a una precedente condotta asseritamente illecita della vecchia Banca. Inoltre, la lettura del citato articolo 3 appare significativa, poiché la norma afferma espressamente che gli azionisti non possono esercitare pretese né sulle attività né sulle passività oggetto di cessione: ossia ai titolari di partecipazioni in vecchia BDM risulta preclusa la possibilità di esercitare nei confronti dell’ente-ponte una qualunque azione giudiziale connessa alla loro precedente qualità di azionisti. Né vale obiettare, come sostiene la difesa degli appellati, che tale disposizione sarebbe contraria al principio di uguaglianza, in quanto differenzierebbe irragionevolmente il trattamento riservato agli azionisti rispetto a quello riservato agli altri creditori: la disposizione infatti menziona, accanto agli azionisti, anche i creditori della banca in risoluzione e gli altri soggetti i cui diritti, attività e passività, non sono oggetto di cessione. Dunque viene equiparato il trattamento di tutti i soggetti potenzialmente coinvolti nella procedura di cessione e, anche a voler condividere la tesi secondo cui gli appellati chiedono il risarcimento non tanto in quanto azionisti, ma in quanto terzi creditori, soccorre pur sempre il contenuto di tale norma, che impedisce anche ai creditori dell’ente in risoluzione di esercitare pretese sui diritti, le attività e le passività compresi nella cessione. Ancora più significativa dell’argomento letterale appare tuttavia l’interpretazione fondata sulla ratio della normativa. L’obiettivo perseguito dal legislatore è quello di consentire la prosecuzione delle funzioni essenziali dell’azienda bancaria, come si desume dall’articolo 42 del decreto legislativo, che recita: “l’ente-ponte è costituito con l’obiettivo di gestire beni e rapporti giuridici acquistati […] con l’obiettivo di mantenere la continuità delle funzioni essenziali precedentemente svolte dall’ente sottoposto a risoluzione”. Proprio alla luce di questo obiettivo, il successivo e già richiamato comma 2 dell’articolo 43 precisa che “il valore complessivo delle passività cedute all’ente ponte non supera il valore totale dei diritti e delle attività ceduti o provenienti da altre fonti”. A tal fine l’articolo 25 richiede che venga effettuata, da Banca d’Italia o dal commissario straordinario, una valutazione provvisoria, che evidenzi tutte le eventuali ulteriori perdite, seguita da una valutazione definitiva (conforme agli articoli 23 e 24 del d.lgs. 180), valutazioni in grado di assicurare che le perdite siano pienamente rilevate e di individuare con sufficiente precisione quali attività e passività siano cedute all’ente ponte (per la valutazione provvisoria, cfr. doc. 41 fascicolo Chirurgi): sarebbe quindi contraddittorio ritenere che il cessionario possa essere chiamato a rispondere di passività occulte emerse solo successivamente alla data di efficacia della risoluzione4. Del resto, che quella indicata sia la ratio della procedura di risoluzione, è riconosciuto pacificamente dagli stessi appellati, che individuano il fine della disciplina nella necessità di garantire la continuità delle funzioni finanziarie ed economiche essenziali dell’ente. Ma se tale è lo scopo perseguito dal legislatore, appare senza dubbio poco conciliabile con esso il fatto di consentire agli azionisti di vecchia BDM di esercitare nei confronti del nuovo ente-ponte pretese risarcitorie riferite alle azioni ridotte: in tal modo, infatti, si finirebbe per riversare gli effetti di talune condotte della vecchia Banca (che nel loro complesso hanno causato le perdite, presupposto della procedura di risoluzione) sulla nuova Banca, che potrebbe addirittura trovarsi a dover sopportare passività superiori e non previste rispetto alle attività trasferite, con conseguente irrimediabile pregiudizio per la prosecuzione della sua attività. Proprio ciò che il decreto n. 180 intendeva evitare: il fine primario del legislatore è chiaramente quello di salvaguardare preminenti interessi pubblici, legati alla garanzia della stabilità dei mercati, anche a scapito di un pregiudizio per alcuni interessi facenti capo a privati (a questo proposito è significativo il disposto dell’articolo 22 del d.lgs. 180/2015, secondo cui “le perdite sono subite dagli azionisti e dai creditori”, ma anche, ad es., dell’art. 35, sugli effetti della risoluzione). Anche la normativa sovranazionale depone in questa stessa direzione: il considerando 5 della c.d. direttiva 2014/59/UE, c.d. BRRD (Bank Recovery and Resolution Directive), afferma infatti che “occorre un regime che fornisca alle autorità un insieme credibile di strumenti per un intervento sufficientemente precoce e rapido in un ente in crisi o in dissesto, al fine di garantire la continuità delle funzioni finanziarie ed economiche essenziali dell’ente, riducendo al minimo l’impatto del dissesto sull’economia e sul sistema finanziario. Il regime dovrebbe assicurare che gli azionisti sostengano le perdite per primi […]”. Ancora, la direttiva dichiara che gli obiettivi della risoluzione sono “garantire la continuità delle funzioni essenziali ed evitare effetti negativi significativi sulla stabilità finanziaria” (art. 31) e che “nell’applicare lo strumento dell’ente-ponte, l’autorità di risoluzione assicura che il valore complessivo delle passività cedute a tale ente non superi il valore totale dei diritti e delle attività ceduti dall’ente soggetto a risoluzione o provenienti da altre fonti” (art. 40 c. 3, poi recepito dall’art. 43 del d.lgs. 180/2015). A questa Corte appare dunque evidente come la ratio della disciplina debba essere individuata nell’esigenza di garantire la prosecuzione dell’attività dell’ente sottoposto a risoluzione ed è dunque alla luce di tale ratio che è necessario interpretare le norme che regolano la procedura e di cui qui si discute. Unico limite scaturente dalla normativa comunitaria, e che anche la disciplina nazionale è tenuta a rispettare (cfr. art. 22 lett. c, d.lgs. 180/2015), è quello del “no creditors worse off”, in base al quale gli azionisti non possono subire un pregiudizio maggiore rispetto a quello che sarebbe loro derivato da un’ordinaria procedura di liquidazione coatta amministrativa. La difesa degli appellati osserva che tale limite sarebbe stato disatteso, in quanto, se fosse stata disposta la liquidazione coatta amministrativa, i creditori della vecchia Banca avrebbero quantomeno potuto soddisfarsi sui proventi derivanti dalla cessione degli attivi (cfr. art. 90 e 91 TUB). A tal proposito, tuttavia, la Corte ritiene dirimente il disposto dell’articolo 83 del TUB, secondo il quale dalla data di insediamento dei liquidatori vengono sospesi il pagamento delle passività di qualsiasi genere e le restituzioni di beni a terzi e, sempre dalla stessa data, non può essere proposta né eseguita alcuna azione contro la banca in liquidazione. Dunque la situazione degli azionisti nel caso di specie è analoga a quella che si sarebbe verificata se fosse stata seguita un’ordinaria procedura di liquidazione. Neppure in quella ipotesi, infatti, essi avrebbero potuto esperire azioni risarcitorie nei confronti della Banca: è vero che i creditori, ai sensi degli articoli 90 e 91 TUB, possono beneficiare dei proventi derivanti dalla cessione degli attivi, ma ciò si verifica solo se il loro credito è già sorto e riconosciuto, non hanno invece la facoltà di agire nei confronti della banca per ottenere l’accertamento di una pretesa fino a quel momento meramente potenziale. Dall’esame complessivo della normativa nazionale e sovranazionale sembra dunque potersi desumere che la procedura di risoluzione cui vecchia BDM è stata sottoposta nel novembre del 2015 ha comportato la costituzione di NBDM, destinata a operare come ente-ponte ai sensi degli articolo 42 ss. del d.lsg. n. 180, cui sono state trasferite soltanto le passività espressamente indicate nelle valutazioni (provvisoria e definitiva), con l’obiettivo di salvare la Banca in perdita e garantire la prosecuzione della sua attività, nonché la stabilità del sistema bancario in generale. Per tali motivi non pare coerente né con la lettera delle norme, né con la volontà del legislatore, l’affermazione di un trasferimento all’ente-ponte e di conseguenza anche a UBI (che ha assorbito NBDM a seguito di fusione) della responsabilità risarcitoria per la contestata emissione di azioni annullate. L’asserita responsabilità risarcitoria, che pure sarebbe sopravvissuta alla procedura di risoluzione, dovrebbe essere imputata ai soggetti cui risulta riferibile la condotta illecita: i signori X e Y, come pure la soc. Z, conservano infatti, ove sussistenti le condizioni di legge, la possibilità di agire nei confronti dei responsabili persone fisiche, nonché nei confronti del revisore legale dei conti PwC. Non è dunque ravvisabile un sacrificio assoluto dei loro interessi. Risulterebbe invece contraddittorio accollare a una nuova azienda (costituita con le descritte modalità e per le ricordate finalità) e a nuovi dirigenti le obbligazioni risarcitorie conseguenti a illeciti addebitabili in via esclusiva ad altri soggetti. La Corte non ritiene pertinenti le considerazioni del Tribunale relative alla possibilità per gli investitori, che siano persone fisiche, imprenditori individuali, nonché imprenditori agricoli o coltivatori diretti, di conseguire un indennizzo forfetario a carico del Fondo di Solidarietà, istituito dalla legge di stabilità n. 208/2015. In particolare, tale legge ha previsto una procedura arbitrale ad hoc per l’accertamento della violazione degli obblighi di informazione, diligenza e correttezza previsti dal TUF, al termine della quale è possibile ottenere un indennizzo. Secondo il giudice di prime cure questi strumenti sarebbero meramente facoltativi, essendo fatta salva la facoltà di agire per il risarcimento nei confronti del soggetto ritenuto responsabile. La Corte ritiene invece che tale previsione non autorizzi a concludere che è garantita la possibilità di agire nei confronti dell’ente-ponte. La precisazione secondo cui “resta salvo il diritto al risarcimento del danno” (art. 1, comma 860) conferma tuttalpiù quanto già osservato: la banca in dissesto non svanisce, ma continua a esistere come soggetto sottoposto a procedura concorsuale contro cui possono essere esperite eventuali azioni risarcitorie. In ogni caso non può trascurarsi che la ricordata previsione si riferisce esclusivamente agli obbligazionisti e non anche agli azionisti: per questi ultimi, invero, è prevista dall’articolo 89 del d.lgs. n. 180/2015 la possibilità di ricevere un indennizzo a carico del Fondo di Risoluzione, ma soltanto nell’ipotesi in cui si accerti che essi hanno subito un danno maggiore rispetto a quello che avrebbero dovuto sopportare in caso di liquidazione coatta amministrativa. Ipotesi che, come sopra evidenziato, non risulta essersi verificata nel caso di specie. Rimane da esaminare l’iscrizione nel bilancio della nuova Banca, per il periodo compreso tra il 22.11.2015 e il 31.12.2015, di accantonamenti di poco più di 14 milioni di euro per “passività potenziali per cause passive con la clientela e azioni revocatorie per 14.577 migliaia di euro iscritte in applicazione del principio contabile internazionale IFRS 3 alla data di acquisizione”6. A tale proposito ritiene la Corte che il riferimento valga esclusivamente per le cause pendenti al momento della risoluzione. Le passività sono indicate come potenziali in relazione al fatto che le cause in questione non sono ancora definite a favore dell’una o dell’altra parte e dunque non è ancora chiaro se effettivamente la Banca sarà tenuta o meno a risarcire i clienti; non vengono invece prese in considerazione azioni giudiziali non ancora esercitate, posto che il fatto non renderebbe possibile prevedere l’ammontare delle somme da riservare. Anche dalla previsione di un c.d. buffer per perdite addizionali, come riportato nel programma di risoluzione7, non sembra possibile desumere automaticamente che sarebbe stato trasferito all’ente-ponte il rischio della proposizione di azioni da parte degli azionisti: infatti la situazione di urgenza in cui viene effettuata la valutazione provvisoria ai sensi dell’articolo 25 del d.lgs. 180 impone di tenere conto della possibile esistenza di perdite aggiuntive, come dimostrato dal fatto che si stabilisce che la quota del buffer è destinata a coprire altresì “ulteriori rettifiche/perdite che dovessero emergere, quali ad esempio, rettifiche su inadempienze probabili” o anche “l’impatto derivante da potenziali variazioni della normativa”. Si tratta quindi di una previsione eccessivamente generica e non idonea a suffragare la tesi sostenuta dagli appellati. Può inoltre ricordarsi che alle medesime conclusioni è pervenuto, in una controversia analoga che concerne sempre vecchia BDM, anche il tribunale di Macerata, che ha ritenuto UBI Banca soggetto giuridico diverso dal presunto debitore, cui non dovevano ritenersi trasferite “le azioni, le obbligazioni subordinate e tutte le pretese, anche risarcitorie, inerenti a tali titoli: e ciò per espressa previsione degli articoli 2 e 3 del medesimo provvedimento di cessione, in attuazione dell’articolo 47 c.7 del d.lgs. 180/2015” (cfr., in proposito, doc. 6 fascicolo appellante). Infine, pare opportuna un’ultima precisazione sulla disciplina normativa concernente il dissesto delle c.d. Banche Venete. Si tratta di una vicenda simile a quella qui esaminata, concernente la liquidazione coatta amministrativa di Banca Popolare di Vicenza S.p.A. e di Veneto Banca S.p.A. Il D.L. 99/2017, che regola la cessione, contempla espressamente l’esclusione dei “debiti delle Banche nei confronti dei propri azionisti e obbligazionisti subordinati derivanti dalle operazioni di commercializzazione di azioni o obbligazioni subordinate delle Banche o violazioni della normativa sulla prestazione dei servizi di investimento riferite alle medesime azioni o obbligazioni subordinate, ivi compresi i debiti in detti ambiti verso i soggetti destinatari di offerte di transazione presentate dalle banche stesse”. Nella sentenza impugnata, il Tribunale ha richiamato tale norma per fondarvi la tesi che “laddove il legislatore ha inteso considerare le pretese risarcitorie facenti capo (anche) agli azionisti come investitori ha dettato una norma espressa”. La disposizione, tuttavia, può anche essere letta in senso opposto, come norma chiave per interpretare allo stesso modo la disciplina già dettata anche per Banca delle Marche: si può affermare, infatti, che il legislatore ha avvertito la necessità di effettuare tale precisazione proprio al fine di evitare interpretazioni volte a ricomprendere nell’oggetto della cessione anche le pretese risarcitorie degli azionisti. Si noti che, mentre la previsione dell’esperibilità, da parte della Banca cessionaria, delle azioni risarcitorie “nei confronti degli ex esponenti aziendali, del soggetto incaricato della revisione legale dei conti e di ogni altro soggetto responsabile dei danni patrimoniali alla stessa arrecati”, contenuta nell’articolo 1 c. 2 del provvedimento di BdI, ha indotto la Corte a sostenere che “ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit” (cfr supra, pag. 7), qui sembra imporsi una diversa interpretazione, trattandosi, nel caso delle Banche venete, di un provvedimento successivo e ulteriore, che si accosta a quello da interpretare. Poiché infatti nel 2017 si era già avuto modo di registrare la proposizione di azioni giudiziarie di azionisti e obbligazionisti nei confronti dell’ente-ponte, pare ragionevole sostenere che il legislatore, proprio al fine di evitare nuovi inconvenienti, abbia inteso semplicemente esplicitare e confermare ciò che era già implicito, immanente, nella disciplina di risoluzione del 2015. In conclusione, dalle considerazioni sopra esposte emerge che la pretesa risarcitoria vantata dagli attori non deve essere ricompresa nel perimetro della cessione e che dunque la Banca è carente di legittimazione passiva. La Corte accoglie pertanto il primo motivo di appello. Rimane così assorbito il secondo motivo di gravame, con cui l’appellante lamenta l’erroneità della sentenza che ha ritenuto inapplicabile l’articolo 2560 c.c., ove prevede che il cessionario risponda dei debiti inerenti l’esercizio dell’azienda ceduta anteriori al trasferimento “solo se essi risultano dai libri contabili obbligatori”. Secondo UBI, infatti, il giudice di prime cure avrebbe errato nel ritenere che la disciplina codicistica, in quanto disciplina ordinaria della cessione di azienda, fosse destinata a cedere dinanzi alla normativa speciale dettata per la risoluzione delle Banche dal d.lgs. n. 180/2015. Non sembra inopportuno, comunque, osservare come l’esame della disciplina complessiva evidenzi che nel caso in questione ci si trova di fronte a una cessione sui generis, che presenta piuttosto i caratteri di una successione e che consiste in un trasferimento temporaneo di diritti, attività e passività a un soggetto-ponte, con l’obiettivo di ricollocare sul mercato l’azienda bancaria risolta. La specialità della normativa è dimostrata anche dal fatto che l’articolo 47, comma 8, prevede la possibilità, ricorrendo determinate condizioni, di ritrasferire alla Banca in risoluzione i diritti, le attività e le passività cedute. Ne segue quindi che, in base al principio universalmente riconosciuto “lex specialis derogat lege generali”, non potrebbe applicarsi al caso di specie la disciplina generale di cui all’articolo 2560 c.c., ma soltanto quella contenuta nel d.lgs. 180. Tuttavia, come già rilevato, tali osservazioni risultano superflue, alla luce delle conclusioni qui accolte e del fatto che le pretese risarcitorie di cui si discute non possono considerarsi trasmesse all’ente-ponte, da ritenersi quindi carente di legittimazione passiva anche sulla base della normativa speciale. Le considerazioni tutte sopra svolte, che appaiono assorbenti rispetto a ogni ulteriore domanda o questione trattata dalle parti, giustificano, ad avviso della Corte, l’accoglimento dell’appello. Infine, quanto alle spese processuali del grado, la complessità della materia e le contrastanti soluzioni elaborate dalla giurisprudenza di merito inducono la Corte a disporne, tra le parti, l’integrale compensazione. P.Q.M. La Corte d’appello di Milano, …(omissis) … così provvede: Accoglie l’appello e accerta la carenza di legittimazione passiva di Nuova banca delle Marche, oggi UBI Banca spa, rispetto alle domande proposte dai sigg.rri X, Y e soc. Z; Compensa per intero tra le parti le spese processuali del grado.              

© Artistiko Web Agency