Usucapione – onere probatorio rigoroso di parte rivendicante l’acquisto – fattispecie – contenuti dell’onus probandi - insufficienza della prova

2.2.2023 – Corte di Appello di Reggio Calabria – Sent. n. 102/2023 – Pres. Morabito – Est. Mazzucca

07/02/2023

Conclusioni delle parti con note di trattazione scritta, depositate telematicamente in data 24.06.2022, il procuratore dell’appellante così precisava le conclusioni:“Voglia l’Ecc.ma Corte, in riforma dell’appellata sentenza del Tribunale di Locri n. 962/17 ed in accoglimento dell’atto di appello, ogni contraria istanza disattesa e respinta: 1)accogliere la domanda riconvenzionale, tempestivamente avanzata in primo grado dal convenuto X, e per l’effetto dichiarare acquisita,exart.1158c.c.laproprietàincapoadXdellazonaricadentenellaparticellan.(omissis)in agro di F; più precisamente quell’area dell’estensione di mq.(omissis) circa, inclusa nella particella catastale n.(omissis);

  • Detta porzione di terreno è individuata dal CTU nella “Planimetria particolareggiata identificazione superficie per cui è causa” riportata nella CTU a pag. 7, nella risposta al quesito 2, e allegata in calce alla detta relazione peritale; 2) condannare parte appellata al pagamento delle spese e dei compensi di entrambi i gradi del giudizio”, mentre il procuratore degli appellati, con note di trattazione scritta, depositate telematicamente in data 27.02.2022 così precisava le conclusioni “Piaccia all’Ecc.ma Corte, contrariis reiectis, respingere l’appello proposto dal sig. X avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Locri in data 6.10.2017 n. 962 e questa integralmente confermare. Con vittoria di spese e competenze professionali del grado”.

… “SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 13.06.2006, il sig. M conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Locri, il Sig. X per sentire “dichiarare ex art. 949 c.c. l’inesistenza del diritto affermato dal convenuto, sulla porzione di terreno di mq. (omissis) circa di cui alla particella (omissis) del foglio di mappa (omissis) sito in Comune di F (RC), di proprietà esclusiva dell’attore; ordinare al convenuto la cessazione delle reiterate turbative e molestie nonché l’immediato rilascio della ridetta porzione di terreno libera e vacua da persone e cose di sua pertinenza, autorizzando l’attore al ripristino dello stato dei luoghi a mezzo rimozione della recinzione apposta sine titulo dal convenuto; condannare il convenuto al risarcimento dei danni arrecati da liquidarsi del caso in via equitativa, con vittoria di spese, funzioni ed onorari della presente causa”. Adduceva l’attore di essere proprietario di un terreno sito in F - riportato in catasto al foglio di mappa n. (omissis), alle particelle n. ri (omissis) - e di non avere potuto procedere alla recinzione dello stesso in quanto il Sig. X, proprietario del fondo confinante, aveva, illegittimamente, rivendicato - sulla base di un’asserita e non veritiera situazione di fatto esistente da oltre cinquant’anni – un quoziente di detto terreno, di circa mq. (omissis), insistente sulla particella n. (omissis). Instaurato il contraddittorio, si costituiva il Sig. X contestando l’avversa domanda, con richiesta di integrale rigetto, e proponendo domanda riconvenzionale, ex art. 1158 c.c., diretta ad ottenere acquisita per usucapione “la zona ricadente nella particella n. (omissis)”. (quella di cui è causa n.d.r.) Precisava in proposito di essere proprietario del fondo - riportato in catasto al foglio (omissis), particelle n.ri (omissis) - confinante con quello dell’attore e che il possesso su dette particelle veniva esercitato da tempo immemorabile dalla famiglia di X (prima dai nonni materni, poi dallo zio e dal padre del convenuto ed infine dallo stesso convenuto) anche nella zona contesa, di circa (omissis) mq., attraverso la coltivazione del terreno, la pulitura e la raccolta dei frutti. Istruita la causa con prova testimoniale e consulenza tecnica d’ufficio, con comparsa depositata in cancelleria il 4.10.2017 si costituivano gli eredi di M (omissis), deceduto nelle more, riportandosi integralmente alle domande ed eccezioni, formulate da quest’ultimo, nel corso del giudizio. All’udienza del 6.1.05.2017, precisate le conclusioni e previa discussione orale, la causa veniva decisa ex art. 281 sexies c.p.c. con lettura contestuale del dispositivo e delle ragioni della decisione. Con la gravata sentenza, il Tribunale di Locri accoglieva la domanda attrice e, per l’effetto, ordinava al convenuto l’immediato rilascio della porzione di terreno di circa (omissis) mq., sita in F, insistente sulla particella n. (omissis) del foglio di mappa n. (omissis); rigettava la domanda riconvenzionale; condannava parte convenuta alla rifusione delle spese legali, in favore dell’attore, e dei costi sostenuti per la consulenza tecnica d’ufficio. Con atto di citazione notificato il 20.11.2017, il Sig. X proponeva appello avverso la sopra specificata decisione chiedendone l’integrale riforma con vittoria di spese legali di entrambi i gradi di giudizio. Si costituivano, ritualmente, gli eredi di M rilevando l’infondatezza dell’avverso gravame ed insistendo per la conferma dell’impugnata sentenza con rifusione delle spese legali del presente grado. (omissis) … “MOTIVI DELLA DECISIONE L’appello è infondato e deve essere disatteso per i motivi che seguono. Lamenta, sostanzialmente, l’appellante, l’errore in cui è incorso il Giudice prime cure laddove, nel rigettare la domanda riconvenzionale di usucapione, ha così motivato “nel caso di specie, l’assunto del convenuto è rimasto privo di supporto probatorio. Ed invero dalle testimonianze rese da testi (A, B e C) non possono ritenersi provati tutti i requisiti richiesti dagli artt. 1158 e ss. cc. per la configurabilità della fattispecie acquisitiva del diritto di proprietà della porzione di terreno dedotta in lite, non avendo parte convenuta dimostrato di avere esercitato per oltre vent’anni, con continuità, senza interruzioni pubblicamente e pacificamente sul fondo oggetto di causa il potere di fatto corrispondente all’esercizio del suddetto diritto di proprietà”. Adduce, sul punto, che il Tribunale non ha tenuto conto delle testimonianze rese dagli altri testi escussi - Sig.ri D, E e G - dalle quali, invece, emergeva che il convenuto, e prima di lui il padre del Sig. X, possedevano, sin dall’anno 1980, uti dominus, il quoziente di terreno conteso, in modo continuo ed ininterrotto, coltivandolo puntualmente. Chiede, pertanto, a questa Corte, previo riesame delle risultanze istruttorie del giudizio di primo grado, di riformare la gravata sentenza e, per l’effetto, di dichiarare acquisita, ex art. 1158 c.c., in suo favore, la proprietà del terreno oggetto di causa come meglio individuato nell’espletata consulenza tecnica d’ufficio. La doglianza non può trovare accoglimento. Deve, in primis, rammentarsi il granitico principio espresso dal Supremo Collegio, per il quale il giudice adito è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove o risultanze che ritenga più attendibili ed idonee alla sua formazione, essendo sufficiente, ai fini della congruità della motivazione del relativo apprezzamento, che da questa risulti compiuta una valutazione dei vari elementi acquisiti al giudizio, considerati nel loro complesso, rientrando nei compiti propri del decidente stabilire quale degli stessi sia, nel caso concreto, più funzionalmente pertinente allo scopo di concludere l'indagine sollecitata dalle parti, con conseguente potere del medesimo di basarsi esclusivamente su quanto ritenga, motivatamente, rilevante e influente ai fine del giudizio richiestogli e di negare ingresso a questioni ritenute del tutto superflue o defatigatorie (v. Cassazione, ordinanza 8 agosto 2019, n. 21210; sentenze n. 16467 del 4 luglio 2017 e n. 742 del 19 gennaio 2015). Calati i surriferiti principi al caso di specie, l'appellante si è limitato a prospettare una diversa valutazione degli elementi, in fatto ed in diritto, acquisiti, rispetto a quella fatta propria dal Tribunale, la cui decisione, peraltro, appare pienamente condivisibile, oltre che adeguatamente motivata. Rileva questa Corte che nessuna violazione del principio di accertamento della prova è riscontrabile nell’operato del primo Giudice che invece, ha proceduto ad una rigorosa valutazione dei fatti, sia per come emersi dai dati documentali in atti che dalle dichiarazioni testimoniali acquisite, nel pieno rispetto del dettato normativo ex art 2697 c.c. e art 116 c.p.c.. Ed invero, è notorio che ai sensi l'art 2697 c.c. “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda” in quanto, nel nostro ordinamento vale il principio “onus probandi incumbit ei qui dicit” nel senso che l'onere di provare un fatto ricade su colui che invoca proprio quel fatto a sostegno della propria tesi con l’ovvia conseguenza che chi vuol far valere in giudizio un diritto deve quindi dimostrare i fatti costitutivi, che ne hanno determinato l'origine. L'adempimento dell'onere di prova, pertanto, è la condizione necessaria per ottenere la formazione del convincimento del Giudice e costituisce la premessa necessaria alla richiesta di attribuzione di un bene della vita e, in virtù del disposto di cui all'art. 116 c.p.c. “il Giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga diversamente”. Tanto premesso, con riferimento alla vicenda in questione, occorre rilevare che è, in linea generale, noto che l'acquisto di un bene per usucapione presuppone la sussistenza di un corpus, accompagnata dall'animus possidendi, corrispondente all'esercizio del diritto di proprietà - pacifico, non violento, ininterrotto e continuato - che si protragga per il tempo previsto per il maturarsi dell'usucapione. E, secondo il consolidato indirizzo della giurisprudenza di merito e di legittimità, chi agisce in giudizio per sentir dichiarare l'intervenuta usucapione in suo favore, deve dare la prova di tutti gli elementi costitutivi della dedotta fattispecie acquisitiva a titolo originario e, in particolare, ha l'onere di provare sia il momento iniziale del possesso ad usucapionem sia la decorrenza del ventennio nonché di aver acquistato il possesso di cosa altrui in modo pacifico, pubblico, inequivoco e di averlo esercitato in continuità per almeno venti anni, senza interruzione, ponendo in essere tutte quelle attività corrispondenti al diritto di proprietà o di altro diritto reale, tramite il compimento di atti conformi alla qualità ed alla destinazione del bene, tali da rivelare sullo stesso, anche esternamente, un'indiscussa e piena signoria. Non solo. L’attore deve, anche, fornire una prova certa e rigorosa del diritto affermato, che non può lasciare spazio a perplessità sulla veridicità e attendibilità delle circostanze asserite, sulla concludenza e sufficienza delle medesime a dimostrare un costante comportamento corrispondente all'esercizio del diritto reale affermato, occorrendo, altresì, che gli atti compiuti, in relazione alle concrete particolarità, inequivocabilmente rivelino l'intenzionalità del possesso e che i fatti siano tali da apparire per il titolare della cosa come inequivocabilmente diretti a far sorgere, a favore di chi li compie, un diritto reale sulla cosa stessa. Ne consegue che l'attore, per vedere accolta la domanda proposta, ha l'onere di provare tanto il "corpus" quanto l'"animus" in quanto solo la sussistenza di un corpus, accompagnata dall'animus possidendi, corrispondente all'esercizio del diritto di proprietà, che si protrae per il tempo previsto per il maturarsi dell'usucapione, raffigura il fatto cui la legge riconduce l'acquisto del diritto di proprietà. Conformemente “per la sussistenza del possesso utile per usucapire occorre il riscontro di un comportamento continuo e non interrotto, inteso inequivocabilmente ad esercitare sulla cosa, per tutto il tempo prescritto dalla legge, l'esercizio di un potere corrispondente a quello del proprietario; la manifestazione del dominio esclusivo sulla res da parte dell'interessato deve attuarsi attraverso una attività apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l'onere della relativa prova su colui che invochi l'avvenuta usucapione del bene” (vedi ex multis sent. Cass. 18.2.1999 n. 1367; sent. Cass. 15.6.2001 n. 8152; sent. Cass. 20.9.2007 n. 19478; sent. Cass. 27.7.2009 n. 17462; sent. Cass. 1.3.2010 n. 4863). D’altra parte, in tema di usucapione, l'esigenza di un attento bilanciamento dei valori in conflitto, tutelati dall'art. 1 del Protocollo Addizionale n. 1 alla CEDU, come interpretato dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo, impone al giudice nazionale l'impiego di un particolare rigore nell'apprezzamento - anche sul piano probatorio - della sussistenza dei presupposti per l'acquisto a titolo originario della proprietà, prevalente sul precedente titolo dominicale (Cass., Sez. 2 -, Sentenza n. 20539 del 30/08/2017). Non a caso, le recenti tendenze giurisprudenziali tendono a punire chi abusivamente e sempre di più sfrutta le cose comuni, o ne rivendica la proprietà anche attraverso l'usucapione per la cui prova, in generale, possono essere utilizzati tutti i mezzi messi a disposizione dall'ordinamento e, nella maggioranza dei casi, la prova di cui trattasi viene fornita mediante testimonianza(cfr. Cass. 16.01.2014 n. 874). In altri termini, il particolare rigore della prova dell'usucapione non può non tener conto del fatto che, nella fattispecie, si tratta pur sempre di un comportamento (quello dell'usucapente) che priva il legittimo proprietario di un bene che gli appartiene, talché le prove dovranno essere tali da giustificare la perdita della proprietà altrui. I giudici di legittimità e di merito – pur a fronte della certezza del diritto che ne deriva dall'usucapione – per sacrificare le ragioni del diritto di proprietà richiedono, dunque, una prova certa e rigorosa ed a ciò consegue anche "la non sufficienza dell'inerzia del proprietario", in quanto anche il non uso è una modalità di godimento del bene, essendo piuttosto necessario che, parallelamente ad esso, si affermi un utilizzo uti dominus di un terzo, con rilievo esterno e tale da dimostrare un’indiscussa e piena signoria di fatto contrapposta all'inerzia del titolare (Corte d'Appello Napoli, sez. 6, 26.6.2018, n. 3151). A ciò si aggiunga che “il comportamento della parte convenuta in azione dichiarativa della usucapione non condiziona il potere/dovere del giudice di accertare in ogni caso, anche d'ufficio e indipendentemente dall'attività processuale da questa svolta, la sussistenza degli elementi costitutivi del diritto fatto valere dall'attore, atteso che l'art. 1158 cod. civ. pone, tra gli elementi costitutivi dell'usucapione, proprio il protrarsi continuativo del possesso per il previsto periodo ventennale, onde l'attore che intenda avvalersene è onerato della prova del decorso di tale periodo, mentre il giudice, a sua volta, deve accertare l'effettivo protrarsi del possesso per il prescritto ventennio in quanto condizione per l'accoglimento della domanda, a prescindere dal fatto che il convenuto - il quale può anche rimanere contumace senza che, per ciò, l'attore sia esonerato dal fornire la prova della ricorrenza dei presupposti del vantato diritto - abbia o meno sollevato, al riguardo, eccezione alcun”a (tra le altre, cfr. Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 17322 del 23/07/2010 e Sez II n.5487-2004). Difatti, secondo giurisprudenza sedimentata che trova conforto normativo nella nuova formulazione del richiamato art. 115 c.p.c., seppure tutte le parti del giudizio siano ritualmente costituite è ininfluente anche il comportamento assunto da queste ultime ed è rimesso al Giudice l'accertamento della sussistenza degli elementi costitutivi dell'azione intrapresa dalla parte attrice "il comportamento processuale della parte – la cui nozione è comprensiva del sistema difensivo adottato nel processo a mezzo del procuratore – può costituire unica e sufficiente fonte di prova e di convincimento e non soltanto un elemento di valutazione delle prove già acquisite al processo; tuttavia il comportamento della parte convenuta nell'azione dichiarativa di usucapione, non condiziona il potere-dovere del giudice di accertare in ogni caso, anche d'ufficio e indipendentemente dall’attività processuale da questa svolta, la sussistenza degli elementi costitutivi del diritto fatto valere dall'attore, atteso che l'art. 1158 c.c., pone, tra gli elementi costitutivi dell'usucapione, proprio il protrarsi continuativo del possesso per il previsto periodo ventennale, per cui l'attore che intenda avvalersene è onerato della prova del decorso di tale periodo, mentre il giudice, a sua volta, deve accertare l'effettivo protrarsi del possesso per il prescritto ventennio in quanto condizione per l'accoglimento della domanda, a prescindere dal fatto che il convenuto abbia o meno sollevato, al riguardo, eccezione alcuna" ( Cass. civ., sez. II, 13.07.1991, n. 7800, in GCM, 1991, 7; Cass. civ., sez. II, 10.07.1980, n. 4414, in GCM, 1980, 7; Cass. civ., sez. II, 09.08.2001, n. 11000, in GCM, 2001, 1587). Sicché anche la contumacia, così come il comportamento adesivo della parte convenuta costituita, non modifica le regole processuali in ordine alla ripartizione dell'onere della prova tant’è che il Giudice non può desumere né dalla contumacia del convenuto ovvero dalla non opposizione alla domanda del convenuto costituito la prova di fatti soltanto dedotti dall'attore ma affatto provati poiché incombe alla parte che ha proposto la domanda il conseguente onere probatorio secondo il principio ex art. 2697 c.c. (cfr. Cass. 11.07.2003, n. 10947). Sulla scorta delle considerazioni espresse deve, in primo luogo, ribadirsi il concetto che, in materia di prova, la domanda di usucapione è soggetta alla dimostrazione, quanto mai rigorosa, in ordine all'inizio, alla durata ed alle modalità del possesso ad usucapionem. A tal proposito, ha precisato, anche di recente, la Suprema Corte che "l'espressione di aver posseduto per oltre vent'anni è talmente generica che lascia indeterminati i termini essenziali della fattispecie dell'usucapione” Cass. civ. sez. VI, 7 settembre 2018, n. 21873 e Cass. civ. sez. VI, 4 luglio 2011, n. 14593 . Quindi, colui che invoca l'intervenuto acquisto per usucapione deve anche allegare e dimostrare il momento e le modalità di acquisto del possesso, non potendosi ritenere sufficiente a tal fine la generica dichiarazione di aver posseduto per oltre vent'anni. Ovvia conseguenza è che “la parte che afferma di avere usucapito il bene deve fornire la dimostrazione del come e del quando ha iniziato a possedere uti dominus non essendo sufficiente a tal fine una semplice dichiarazione di aver posseduto ma essendo, al contrario, indispensabile fornire una prova certa della data di inizio del possesso” (Cass. 21837/18). Non è, in altri termini, sufficiente che l'attore sostenga dinanzi al giudice di possedere il bene "da tempo immemorabile” ovvero "da oltre venti anni et similia” – così come riportato nella comparsa di risposta - giacche' l'incertezza circa il termine iniziale di decorrenza del possesso, non consente di ritenere maturata l'usucapione e ciò in considerazione del fatto di scongiurare il rischio che, invocando l'istituto dell'usucapione, si pongano in essere azioni che siano incardinate senza un idoneo impianto probatorio (Cass. civ., sez. II, 26.04.2011, n. 9325). Quanto, poi, alla specifica ipotesi della coltivazione di un fondo, richiamata dal convenuto in riconvenzionale, la Corte di legittimità ha precisato che "la coltivazione di un terreno, è in sé attività corrispondente all'esercizio del diritto dominicale, epperò, dato che la coltivazione del fondo di per sé non è espressiva, in modo inequivocabile, dell'intento del coltivatore di possedere per sé è necessario che l'attività materiale corrispondente al diritto di proprietà (la coltivazione) sia accompagnata almeno da indizi che consentono di desumere sia pure in via presuntiva che quell'attività è svolta liti dominus" (così sent. Cass. 29.7.2013 n. 18215; in senso del tutto analogo ord. Cass. 3.7.2018 n. 17376). Più precisamente, i Giudici Supremi, investiti della questione, hanno affermato che la coltivazione eseguita sul terreno non comporta, di per sé, una situazione oggettivamente incompatibile con la proprietà altrui e che, al fine della sussistenza di un’attività apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui necessaria per usucapire un bene, non risultano sufficienti atti soltanto di gestione consentiti dal proprietario, o anche atti tollerati dallo stesso titolare del diritto dominicale. Detti atti, invero, comportano solo il soddisfacimento di obblighi o l’erogazione di spese per il miglior godimento della cosa risultando dunque incompatibili con il “comportamento continuo e non interrotto inteso inequivocabilmente ad esercitare sulla cosa, per tutto il tempo prescritto dalla legge, l’esercizio di un potere corrispondente a quello del proprietario”. Sicché, l’attività di coltivazione – pur se configura un’attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà (coltivare un terreno, con la messa a dimora di piante, significa, infatti, disporre materialmente di esso) - non può consentire, di per sé, di desumere in via presuntiva l’animus possidendi, in quanto non indicativa dell’intento, in colui che la compie, di avere la cosa come propria. Su questa scia, quindi, neppure la coltivazione del fondo è sufficiente ai fini probatori, in quanto, di per sé, non esprime, in modo inequivocabile, l'intento del coltivatore di possedere, occorrendo, invece, che tale attività materiale, corrispondente all'esercizio del diritto di proprietà, sia accompagnata da indizi, i quali consentano di presumere che essa è svolta "uti dominus" (Cass. 18215/13). Trasfondendo i richiamati principi al caso che ci occupa, non può non rilevarsi che l'invocato acquisto della proprietà del bene immobile, da parte del convenuto in riconvenzionale, è risultato privo di fondamento non essendo emerso dalle risultanze processuali la prova dell'usucapione nei modi e nei termini fin qui illustrati. E, invero, deve evidenziarsi che l'attore (e prima di lui suo padre) si è limitato ad allegare di aver posseduto, da tempo immemorabile, il bene in questione, senza specificare e provare né il momento né le modalità con cui è avvenuto l'impossessamento. Sul punto, i testi di parte convenuta – le cui dichiarazioni il Giudice di prime cure non ha richiamato nel testo della sentenza - si sono limitati unicamente a confermare i capitoli di prova riferendo della coltivazione del fondo ad opera di parte attrice, senza nulla riferire sul momento e le modalità dell’avvenuto impossessamento. Invero, i testi hanno, genericamente, riferito che l'attore ha coltivato il terreno in questione – ma come già detto tale attività non è espressiva, in modo inequivocabile, dell'intento del coltivatore di possedere per sé - senza alcun riferimento al compimento di specifici atti di possesso idonei a dimostrare l’intenzione di esercitare sul bene un potere corrispondente a quello del proprietario. È evidente che, tali carenze probatorie, hanno inciso in modo determinante sull’accoglimento della domanda considerato che l'usucapione può affermarsi compiuta solo in presenza di una prova certa sul termine iniziale di decorrenza del possesso sicché, in difetto, non può esservi alcun riconoscimento in capo a chi la invoca. Mentre gli altri testi di parte convenuta, come correttamente riportato dal primo Giudice, hanno riferito di singoli episodi successivi all’anno 1990 e “pertanto, tali deposizioni testimoniali non sono in grado, in ogni caso, di coprire il ventennio utile ai fini dell’usucapionem considerato che il presente giudizio è stato instaurato nell’anno 2006”. A ciò si aggiunga che le dichiarazioni testimoniali non hanno nemmeno specificato le modalità significative dell'esercizio del possesso in modo tale da rivelarne l’intenzionalità inequivocabilmente diretta a far sorgere, a favore di chi li compie, un diritto reale sulla cosa stessa. Così come è rimasto del tutto indimostrato il potere di fatto, pubblico e indisturbato, esercitato sulla cosa per il tempo necessario ad usucapirla, che, ai sensi dell’art. 1141 c.c., rende operante la presunzione di possesso. Anche tale carenza probatoria assume importanza decisiva poiché, per la sussistenza dell'animus possidendi richiesto per usucapire un bene, è necessaria la “manifestazione del dominio esclusivo sulla 'res' da parte dell'interessato attraverso una attività apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui e, per la relativa prova, non è sufficiente aver svolto sul fondo, che si asserisce di aver usucapito, l'attività di coltivazione, in quanto detta attività 'non comporta di per sé una situazione oggettivamente incompatibile con la proprietà altrui'”(cfr. Cass. 9325/2011), “occorrendo, invece, che tale attività materiale, corrispondente all'esercizio del diritto di proprietà, sia accompagnata da indizi, i quali consentano di presumere che essa è svolta uti dominus” (cfr. Cass. 18215/2013). Quindi se, da un lato, già le allegazioni iniziali di parte attrice, attesa la loro genericità, risultavano del tutto insufficienti a ritenere integrata la fattispecie dell'acquisto della proprietà per usucapione, dall'altro, alcuna prova idonea è stata fornita a corroborare, nei termini rigorosi richiesti, la fondatezza della domanda de qua “rectius del corpus e dell’animus possidendi”. Sul punto si richiama la recente sentenza della Corte Cassazione n. 8866/2018 che ha affermato il principio di diritto secondo cui “per la configurabilità del possesso ad usucapionem è necessaria la sussistenza di un comportamento continuo, e non interrotto, inteso inequivocabilmente ad esercitare sulla cosa, per tutto il tempo all’uopo previsto dalla legge, un potere corrispondente al diritto reale posseduto, manifestato con il compimento di atti di possesso conformi alla qualità ed alla destinazione della cosa e tali da rilevare, anche esternamente, una indiscussa e piena signoria sulla cosa stessa, contrapposta all’inerzia del titolare”. Tanto anche alla luce delle dichiarazioni rese dai testi di parte attrice che hanno, di contro, riferito che tutta la zona pianeggiante dal lato monte al lato mare era una discarica ed i terreni erano incolti e occupati da detriti sino all’anno 2006 e che, solo successivamente, l’area risultò sgomberata e ripulita (v. testi W e Ing. Z). Circostanza, questa, confermata dal consulente tecnico d’ufficio che così relazionava “… come si vede non sono presenti coltivazioni o piantumazioni di alcun genere”. A fronte di un quadro probatorio del tutto insufficiente a provare la proposta domanda riconvenzionale non può che concordarsi con il Giudice di prime cure laddove ha ritenuto che “da una complessiva valutazione delle dichiarazioni e dei riferimenti dei testi escussi è possibile affermare che non sia stata raggiunta in alcun modo la prova del possesso animo domini da parte del convenuto e del suo dante causa dell’immobile per cui è causa in maniera pacifica e assolutamente indisturbata e per il periodi di tempo utile per usucapire”. Ne consegue che l’appello deve essere rigettato con conferma integrale dell’’impugnata sentenza. Le spese giudiziali del presente grado seguono la soccombenza e vengono liquidate secondo i parametri di cui al D.M. 37/2018, in conformità alla sentenza n. 33482/2022 della Cassazione Civile, Sezioni Unite. (omissis)

© Artistiko Web Agency