Licenziamento di dirigente – provvedimento sostanzialmente disciplinare – difetto di preventiva contestazione di addebiti – annullamento sanzione: pagamento indennità di mesi quattro.

14.6.2024 Corte di Appello de L’Aquila – sez. lavoro – Sent. 433/2023 (non definitiva) - Pres. Riga – Est. Tracanna

03/07/2024

Avente ad oggetto: appello avverso la sentenza n. 113/2022 in data 12 ottobre 2022 del Tribunale di Vasto in funzione di Giudice del Lavoro Con sentenza n. 113/2022 in data 12 ottobre 2022 il Tribunale di Vasto ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato al sig. X e per l’effetto, condannato la V s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, a corrispondere al ricorrente l’indennità supplementare nella misura pari a una mensilità del corrispettivo del preavviso; rigetta per il resto, compensando integralmente tra le parti le spese di lite. In particolare X aveva agito in giudizio deducendo 1) di essere stato assunto dalla V s.r.l. con qualifica di dirigente e con decorrenza dal (omissis)2019; 2) che nonostante la lettera di assunzione prevedesse lo svolgimento dell’incarico di Direttore dello Stabilimento di P, aveva in realtà sempre espletato mansioni inferiori, riconducibili nella categoria di quadro o, eventualmente, in quella dell’impiegato direttivo, considerato che la direzione e il coordinamento dello stabilimento erano sempre stati affidati all’Amministratore delegato, dott. W; 3) che con missiva del (omissis)2020 la società gli aveva intimato il licenziamento per mancato raggiungimento degli obiettivi; 4) che l’intimato recesso era illegittimo sotto diversi profili e, segnatamente: a) per l’insussistenza della giusta causa e del giustificato motivo soggettivo o, comunque, per la sproporzione della sanzione comminata perché, avendo egli di fatto sempre svolto mansioni non dirigenziali, non era da lui esigibile il raggiungimento degli obiettivi; b) perché, anche a voler ritenere che egli avesse effettivamente espletato mansioni dirigenziali, è stato adottato prima della scadenza del termine per il conseguimento degli obiettivi e le contestate condotte sono dipese dall’inerzia della società, che non ha dato seguito alla propria richiesta di assunzione di un meccanico e di un addetto al magazzino; c) comunque, perché egli aveva raggiunto gli obiettivi di produzione; d) per violazione del disposto dell’art. 7, comma 2, l. 300/70; 5) nel caso di mancato riconoscimento della categoria di impiegato, di aver diritto alla somma di € (omissis), prevista dal contratto di lavoro in caso di realizzazione degli obiettivi, che egli avrebbe certamente conseguito se la società non avesse ingerito nelle scelte a cui è tipicamente preposta la figura dirigenziale. Sulla base delle allegazioni che precedono, aveva quindi chiesto al Tribunale: “… b) nel merito ed in via principale: - dichiarare che l’inquadramento del ricorrente è stato quello di quadro e/o impiegato direttivo; - dichiarare l’illegittimità del licenziamento, per le ragioni illustrate nel ricorso introduttivo; - dichiarare che il fatto contestato non sussiste e, per l’effetto, ordinare la reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro e condannare la società al risarcimento del danno pari a tutte le retribuzioni utili ai fini della determinazione del t.f.r. dal giorno del licenziamento fino a quello di effettiva reintegrazione e, comunque, nella misura massima di dodici mensilità, ai sensi dell’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23 del 2015, tra la data del licenziamento e quella della sentenza. c) nel merito ed in via subordinata: - dichiarare che l’inquadramento del ricorrente è stato quello di quadro e/o impiegato direttivo; - dichiarare l’illegittimità del licenziamento, per le ragioni illustrate nel ricorso introduttivo; - dichiarare l’assenza di proporzionalità, di cui all’art. 2106 cod. civ., tra il licenziamento ed i fatti contestati e, per l’effetto, condannare la società al risarcimento del danno mediante il pagamento di una indennità compresa tra le sei e le trentasei mensilità di retribuzione, ai sensi dell’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015. d) nel merito ed in via ulteriormente subordinata: - dichiarare che l’inquadramento del ricorrente è stato quello di quadro e/o impiegato direttivo; - dichiarare l’illegittimità del licenziamento, per violazione dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970;- condannare la società al risarcimento del danno mediante il pagamento di una indennità compresa tra le due e le dodici mensilità, ai sensi dell’art. 4 d.lgs. n. 23 del 2015. e) nel merito ed in via ancora subordinata e/o alternativa: - qualora il Tribunale ritenesse che il ricorrente abbia effettivamente svolto le mansioni tipiche del dirigente, dichiarare l’illegittimità del licenziamento per violazione dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970 o, comunque, la sua ingiustificatezza per difetto di proporzionalità e, di conseguenza, condannare la società al pagamento dell’indennità supplementare prevista dall’art. 19 del ccnl dirigenti nella misura che sarà ritenuta di giustizia; - condannare, altresì, la società convenuta al risarcimento del danno da perdita di chance, consistente nell’aver impedito al lavoratore di raggiungere il premio di risultato quantificato in € (omissis) annui lordi e nella misura che sarà ritenuta di giustizia.”. Si era costituita la V s.r.l., la quale aveva eccepito la decadenza dall’impugnazione del recesso ai sensi dell’art. 6, l. 604/66 e, nel merito, aveva contestato lo svolgimento di mansioni non dirigenziali e le avverse allegazioni in ordine alla illegittimità del licenziamento, insistendo per il rigetto del ricorso. La causa in primo grado è stata istruita sulla base della documentazione in atti, essendo state rigettate le istanze di prova orale articolate dalle parti. Avverso la suindicata sentenza ha proposto appello il lavoratore, chiedendo la riforma della sentenza impugnata e concludendo nei seguenti termini “a) in via istruttoria: - ammettere prova testimoniale sulle circostanze di cui ai nn. 14, 15, 16, 17, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 28, 30, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 50, 51, 55, 57, 58 e 59 della parte “in Fatto” del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado e riprodotte nelle pagine da 2 a 10 del presente atto di appello, da intendere qui trascritte precedute dalle parole “vero che”. Si indicano come testimoni i sigg.ri: (omissis), qualora sia reso necessario, ammettere consulenza tecnica di ufficio che verifichi il contenuto della Relazione esibita dalla società in primo grado (doc. 9 allegato al fascicolo della V dinanzi al Tribunale) con i dati indicati nella Tabella riportata a p. 43 del presente ricorso e, più in generale, la esattezza dei dati contabili e produttivi indicati nella lettera di licenziamento dr. X; b) nel merito, in via principale e in riforma della sentenza impugnata: - dichiarare che il lavoratore, per le ragioni sopra esposte, non è decaduto dalla facoltà di proporre in giudizio la domanda formulata ai sensi dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015;- dichiarare che l’inquadramento dell’appellante è stato quello di quadro e/o impiegato direttivo; - dichiarare l’illegittimità del licenziamento, per le ragioni illustrate nel ricorso introduttivo; - dichiarare che il fatto contestato non sussiste e, per l’effetto, ordinare la reintegrazione dell’appellante nel posto di lavoro e condannare la società al risarcimento del danno a suo favore pari a tutte le retribuzioni utili ai fini della determinazione del t.f.r. dal giorno del licenziamento fino a quello di effettiva reintegrazione e, comunque, nella misura massima di dodici mensilità, ai sensi dell’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23 del 2015, tra la data del licenziamento e quella della sentenza. c) nel merito, in via subordinata e in riforma della sentenza impugnata: - dichiarare che il lavoratore, per le ragioni sopra esposte, non è decaduto dalla facoltà di proporre in giudizio la domanda formulata ai sensi dell’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015; - dichiarare che l’inquadramento dell’appellante è stato quello di quadro e/o impiegato direttivo; - dichiarare l’illegittimità del licenziamento, per le ragioni illustrate nel ricorso introduttivo; - dichiarare l’assenza di proporzionalità, di cui all’art. 2106 cod. civ., tra il licenziamento ed i fatti contestati e, per l’effetto, condannare la società al risarcimento del danno a favore dell’appellante mediante il pagamento di una indennità compresa tra le sei e le trentasei mensilità di retribuzione, ai sensi dell’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015. d) nel merito, in via ulteriormente subordinata e in riforma della sentenza impugnata: - dichiarare che il lavoratore, per le ragioni sopra esposte, non è decaduto dalla facoltà di proporre in giudizio la domanda formulata ai sensi dell’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015; - dichiarare che l’inquadramento dell’appellante è stato quello di quadro e/o impiegato direttivo; - dichiarare l’illegittimità del licenziamento, per violazione dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970; - condannare la società al risarcimento del danno a favore dell’appellante mediante il pagamento di una indennità compresa tra le due e le dodici mensilità, ai sensi dell’art. 4 d.lgs. n. 23 del 2015. e) nel merito, in via ancora subordinata e/o alternativa e in riforma della sentenza impugnata: - qualora il Tribunale ritenesse che l’appellante abbia effettivamente svolto le mansioni tipiche del dirigente, dichiarare l’illegittimità del licenziamento per violazione dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970 o, comunque, la sua ingiustificatezza e, di conseguenza, condannare la società al pagamento a favore del dr. X dell’indennità supplementare prevista dall’art. 19 del ccnl dirigenti nella misura di quattro mensilità della retribuzione globale di fatto che è dovuta nel caso di svolgimento del periodo di preavviso; f) nel merito, in ogni caso e in riforma della sentenza impugnata: - condannare la società convenuta al risarcimento a favore dell’appellante del danno da perdita di chance per il mancato conseguimento del premio di risultato, quantificato nell’importo di Euro (omissis) o nella diversa somma che sarà ritenuta di giustizia”. Si è costituita in giudizio la V srl contestando ogni avverso motivo di impugnazione, spiegando appello incidentale condizionato e chiedendo in particolare “1. in via principale, rigettare il ricorso in appello proposto da X e confermare definitivamente la sentenza n. 113/2022, del Tribunale Civile di Vasto, Sezione Lavoro, anche con diversa motivazione. 2. In subordine, accogliere l’appello incidentale condizionato e riformare la sentenza appellata, con integrale rigetto delle domande formulate d’odierno appellato in primo grado; Con tutte le conseguenze previste dalla legge. 3. In via istruttoria, si chiede il rigetto delle istanze istruttorie formulate da controparte, in quanto irrilevanti, superflue e inammissibili per tutti i motivi già indicati in primo grado. In caso di parziale ammissione delle stesse, si chiede di essere ammessi a prova contraria e si reiterano integralmente – senza inversione alcuna dell’onere della prova – tutte le istanze istruttorie formulate con la memoria di primo grado, con i testi ivi indicati. 4. Con vittoria di spese per entrambi i gradi di giudizio”. All’odierna udienza la causa è stata discussa e decisa nei termini indicati in dispositivo. Con il primo motivo di impugnazione, l’appellante principale ha censurato la decisione del primo giudice che ha ritenuto “il lavoratore decaduto dalla facoltà di impugnare il licenziamento in sede giudiziaria, con riferimento alla domanda di applicazione delle tutele previste dal D Lvo 23/2015”, lamentando la violazione dell’art. 6 comma 1 L. n. 604/66 così come modificato dall’art. 32 L.n. 83/2010, essendo la decadenza connessa ad una qualifica soggettiva – quella di impiegato o di operaio – in assenza della quale il diritto non può essere esercitato. In particolare presupponendo l’art. 6 citato un soggetto che abbia la qualifica di impiegato o di operaio o di quadro, in presenza di un recesso datoriale, la norma impone che l’esercizio del potere di impugnazione avvenga nel doppio termine di 60 e di 180 giorni. Nel caso in esame, poiché la qualificazione soggettiva ai fini dell’operatività della norma è quella del momento in cui il potere deve essere esercitato e non quella che ancora non esiste e che necessita di un previo accertamento in via giurisdizionale, il riferimento è alla disciplina del dirigente in possesso del lavoratore al momento del recesso e non a quella dell’impiegato o del quadro, cui aspira. A parere dell’appellante, il primo giudice avrebbe ulteriormente errato, sottoponendo a termine decadenziale un soggetto, senza operare alcun accertamento, cioè prima ancora di verificare se il lavoratore potesse essere considerato o meno pseudo dirigente, insistendo pertanto anche nelle richieste istruttorie non ammesse in primo grado. Con il secondo motivo di gravame, l’appellante principale ha censurato la decisione del primo giudice che, dichiarando la decadenza, si è esonerato dalla disamina delle allegazioni in ordine alle mansioni che il ricorrente ha asserito di aver svolto, insistendo altresì nelle richieste istruttorie non ammesse in primo grado. Con il terzo motivo di impugnazione, l’appellante principale ha censurato la pronuncia di primo grado per non avere il Tribunale esaminato le conseguenze giuridiche scaturenti dalla illegittimità del licenziamento, per violazioni procedurali, in relazione ad una qualifica non dirigenziale. L’appellante principale ha infine ribadito l’illegittimità del recesso intimato all’appellante, privo di giustificato motivo soggettivo, oltre che viziato da un punto di vista procedurale, atteso che è il lavoratore è stato “punito” per non aver raggiunto entro la fine del 2019 obiettivi che avrebbe dovuto realizzare entro giugno 2020 e per non aver garantito le attese delle società nei settori “produzione e manutenzione”, riguardo ai quali era stato estromesso dai vertici aziendali. Con l’appello incidentale condizionato la società datrice di lavoro, ferma restando l’infondatezza degli avversi motivi di gravame, ha inteso riformulare tutte le argomentazioni ritenute assorbite dalla sentenza di primo grado, evidenziando la mancanza di valida prova documentale della avventa comunicazione, asseritamente effettuata a mezzo PEC, della impugnazione stragiudiziale del licenziamento oltre che della omessa impugnazione giudiziale nei termini da parte del lavoratore, con conseguente inammissibilità del ricorso per intervenuta decadenza del medesimo, poiché, a differenza di quanto ritenuto dal primo giudice “la decadenza si applica anche in relazione alla tutela riconosciuta al dirigente, soprattutto laddove lo stesso abbia volontariamente deciso di impugnare il licenziamento ex art. 6 L.n. 604/66”. I motivi, strettamente connessi e trattati congiuntamente, non sono fondati e vanno rigettati. E’ ius receptum l’orientamento per cui i dipendenti con la qualifica dirigenziale sono, come tali, sottratti alla normativa limitativa dei licenziamenti individuali di cui alla L. 15-7-1966 n. 604 (Cfr da Cass. S.U. 17-2-1987 n. 1463), a meno che non si tratti delle ipotesi di stretta invalidità ("rectius", nullità) menzionate dall'art. 18, comma 1, st. lav., così come modificato dalla l. n. 92 del 2012, per le quali l'art. 32, comma 2, della l. n. 183 del 2010 ha esteso anche ai dirigenti il medesimo regime decadenziale, che, dunque resta escluso nei soli casi di ingiustificatezza convenzionale del recesso, cui consegue la tutela meramente risarcitoria dell'indennità supplementare (cfr Cass. 6828/23). In tale ultimo caso, come spiegato dalla Suprema Corte, “l'azione giudiziaria di impugnazione del licenziamento e la condanna del datore di lavoro al pagamento dell'indennità supplementare, non è sottoposta ad alcun termine di decadenza, e può quindi essere esercitata entro il normale termine di prescrizione del diritto controverso, non soggiacendo ad alcun termine, previsto dall'art. 6 L. n. 604 del 1966 poiché tale norma è inapplicabile ai dirigenti ai sensi dell'art. 10 della stessa legge e, in quanto di stretta interpretazione, non è estensibile ad ipotesi non contemplate”. In particolare, l'art 32, comma 2, del Collegato lavoro ha previsto l'estensione della decadenza a tutti i casi di invalidità del recesso, compresi quelli dei dirigenti. Il termine invalidità, ha chiarito la Corte, ha un significato preciso, che presuppone che l'atto sia inficiato nella sua validità per un vizio intrinseco derivante dal discostamento dal modello legale o per effetto di una previsione legale che colleghi alla mancanza di requisiti che devono caratterizzare l'atto la conseguenza della invalidità' (come per il licenziamento: art. 2119 c.c.). La legge 183/2010 ha così inteso ricomprendere nell'ambito del regime caducatorio, disciplinato ex novo rispetto all'art 6 I. 604/1966, casi di nullità e, in generale, di invalidità esterni alla legge 604/1966. Il licenziamento del dirigente originariamente era tutelato dal divieto del licenziamento discriminatorio e ritorsivo (colpito da nullità: artt. 2 e 4 della legge n. 604/1966 cit.), lasciando la normativa immutato il regime di libera recedibilità come criterio generale, salva sempre la possibilità per la contrattazione collettiva di introdurre un regime di controllo delle ragioni del licenziamento individuale. Ai limiti di tutela ha posto rimedio la contrattazione collettiva col prevedere che, nei casi in cui non sussista la giustificatezza del licenziamento, ferma la validità e l’efficacia del recesso, al dirigente spetta una speciale indennità supplementare di carattere risarcitorio. Soltanto con la legge n. 92 del 2012, nella nuova formulazione dell’art. 18, comma 1 della legge n. 300 del 1970 i dirigenti sono stati per la prima volta destinatari di una tutela piena, per le ipotesi, anche ad essi applicabili, di nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell’articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108 (intimato in concomitanza col matrimonio, in violazione dei divieti di licenziamento in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o intimato per un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 del codice civile). Con la sentenza n. 22627/2015, la Suprema Corte ha affermato che “i suddetti termini di decadenza e di inefficacia dell’impugnazione devono trovare applicazione quando si deduce l’invalidità del licenziamento, come nella specie, prospettandone la nullità in quanto discriminatorio, non assumendo rilievo la categoria legale di appartenenza del lavoratore”. A questa decisione la Corte di Cassazione è pervenuta rilevando che “la ratio della disciplina introdotta dall’art. 6 della legge n. 604/1966, in combinato disposto con l’art. 32, comma 2, della legge n. 183 del 2010, si rinviene nell’esigenza di garantire la speditezza dei processi attraverso la previsione di termini di decadenza ed inefficacia in precedenza non previsti, in aderenza e non in contrasto con l’art. 111 Cost. Il legislatore ha così operato, facendo riferimento ad un criterio oggettivo, un non irragionevole bilanciamento tra l’indispensabile esigenza di tutela della certezza delle situazioni giuridiche e il diritto di difesa del lavoratore”. In definitiva, l’art. 32, comma 2, ha previsto un onere di impugnativa a pena di decadenza per ogni recesso datoriale invalido - con un metro che per sua natura è indipendente dalla categoria legale di appartenenza del lavoratore - ed è ragionevole ritenere che la norma regoli “anche” il caso del licenziamento vietato o nullo del dirigente, identico nella disciplina (sostanziale e sanzionatoria) al corrispondente licenziamento di un impiegato o di un operaio. Ciò comporta che, solo in virtù di tale estensione, la disciplina della decadenza per i casi di “invalidità” è stata resa applicabile ai recessi intimati ai dirigenti, una volta ritenuto che l’ambito soggettivo di applicabilità del regime decadenziale comprenda anche tale categoria. L’estensione è avvenuta soltanto per effetto dell’art. 42 della legge n. 92/2012 – che ha riformulato l’art. 18 comma 1 St. lavoratori – prevedendo ipotesi di nullità dei licenziamenti cui consegue di diritto la tutela reintegratoria anche per i dirigenti (testo novellato dell’art. 18, comma 1, St. Lav.), rendendo operativo anche per essi il regime del doppio termine di decadenza. Resta esclusa la sola ipotesi della ingiustificatezza del recesso, di fonte convenzionale, caratterizzata dalla tutela meramente risarcitoria dell’indennità supplementare, che si collega ad un atto incontestatamente e pacificamente valido, che incide in termini solutori sul rapporto di lavoro. La giustificatezza, peraltro, come è noto, non si identifica con la giusta causa e con il giustificato motivo oggettivo, a differenza di quanto avviene relativamente ai rapporti con la generalità dei lavoratori, potendo il licenziamento del dirigente non necessariamente costituire una "extrema ratio", ma conseguire anche ad ogni infrazione che incrini l'affidabilità e la fiducia che il datore di lavoro deve riporre sul dirigente stesso, essendo sufficiente una valutazione globale, che escluda l'arbitrarietà del recesso (Cass. n. 34736/2019 e n. 381/2023). Fermo restando dunque che, in materia di licenziamento, la ratio di ogni regime decadenziale è strettamente connessa alla tutela apprestata – restando escluso nella sola ipotesi di ingiustificatezza del recesso del dirigente – ne deriva che esso opera non in funzione della qualifica soggettiva del lavoratore licenziato, ma in ragione della domanda formulata e della tutela azionata. Ciò comporta che qualora sia invocata la disciplina sostanziale e sanzionatoria del licenziamento dell’impiegato o dell’operario – come nel caso in esame, in cui la tutela richiesta – fatta salvo l’ultima domanda formulata in ulteriore subordine dal lavoratore – discenderebbe dal preliminare accertamento della diversa qualifica rivestita – non di dirigente ma di impiegato o quadro – è onere del lavoratore stesso adempiere a tutti gli incombenti previsti da quella disciplina, compreso il doppio termine decadenziale. Diversamente vi sarebbe un facile aggiramento della norma, ogni volta che, sollecitato l’accertamento di una diversa qualificazione delle mansioni svolte – non più corrispondenti a quelle di appartenenza e cioè di dirigente ma a quelle inferiori e diverse di quadro o di impiegato – allo scopo di rendere applicabile la disciplina sanzionatoria prevista per questi ultimi – per effetto della quale, peraltro, l’eventuale reintegrazione non potrebbe che avvenire nelle inferiori mansioni di quadro o di impiegato – il lavoratore sarebbe esonerato dagli obblighi, previsti a pena di decadenza, da quella stessa disciplina di cui invoca l’applicazione. Specularmente, l’esonero del dirigente dal regime decadenziale, nella sola residuale ipotesi di lamentata ingiustificatezza del recesso – riconducibile ad un illecito convenzionale che cagiona un danno risarcibile secondo le previsioni del c.c.n.I. e che non priva di valore e di efficacia giuridica il licenziamento, non ne rimuove gli effetti, ma il datore è obbligato solo a pagare l'indennizzo contrattualmente previsto – è connesso non tanto alla qualifica di dirigente del lavoratore che agisce in giudizio, quanto alla domanda formulata, avente ad oggetto una tutela risarcitoria da inadempimento contrattuale, fermo restando il recesso datoriale operato. Correttamente pertanto il primo giudice, constatata la formulazione della domanda di impugnazione del licenziamento come finalizzata all’applicazione della più favorevole tutela prevista dall’art. 3 L.n. 23/2015, sul presupposto del previo accertamento dello svolgimento di mansioni impiegatizie ed applicata la corrispondente disciplina sostanziale, compreso il doppio termine decadenziale, ha ritenuto del tutto superfluo procedere all’effettivo accertamento delle mansioni svolte – se dirigenziali o invece impiegatizie – atteso che, anche in caso di esito positivo, alcun beneficio avrebbe potuto conseguire il ricorrente, essendo già maturata la decadenza, per mancata impugnazione giudiziale del licenziamento intimato in data (omissis)2020, essendo trascorsi oltre 180 giorni, prima dell’introduzione del ricorso giudiziale (depositato in data 7 dicembre 2020) – anche tenuto conto della sospensione per emergenza pandemica Covid 19 – rispetto all’impugnazione stragiudiziale, intervenuta in data 23 marzo 2020, come riconosciuto dal primo giudice e non diversamente contestato. Rigettati i predetti motivi, restano altresì assorbite le censure formulate, con l’appello incidentale condizionato, dalla società datrice di lavoro, riguardanti l’inammissibilità del ricorso per intervenuta decadenza. Quanto alla ulteriore censura fatta valere con l’appello incidentale condizionato per cui la sentenza di primo grado sarebbe erronea nel punto in cui ha ritenuto illegittimo il recesso intimato all’odierno appellante in qualità di dirigente, va precisato quanto segue. Per la categoria dirigenziale, come già illustrato, la nozione contrattuale di giustificatezza del recesso si discosta, sia sul piano soggettivo che oggettivo, da quella di giustificato motivo, trovando la sua ragion d'essere, da un lato, nel rapporto fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro in virtù delle mansioni affidate, dall'altro, nello stesso sviluppo delle strategie di impresa che rendono nel tempo non pienamente adeguata la concreta posizione assegnata al dirigente nella articolazione della struttura direttiva dell'azienda (Cass. . 27199/2018). Quanto al licenziamento disciplinare del dirigente, l’orientamento giurisprudenziale, sul presupposto che la generalizzata estensione delle procedure di contestazione dei fatti posti a base del recesso trova la sua effettiva ratio non già nelle caratteristiche intrinseche del rapporto di lavoro, ma nella capacità dei suddetti fatti di incidere direttamente, al di là dell'aspetto economico, sulla stessa "persona del lavoratore", ledendone talvolta, con il decoro e la dignità, la stessa immagine in modo irreversibile, ha condivisibilmente ritenuto che le garanzie procedimentali (di previa contestazione e di tutela del diritto di difesa, nel contraddittorio) dettate dalla L. n. 300 del 1970, art. 7, commi 2 e 3 debbano trovare applicazione nell'ipotesi di licenziamento di un dirigente, a prescindere dalla sua specifica collocazione nell'impresa, sia se il datore di lavoro gli addebiti un comportamento negligente, o colpevole in senso lato, sia se a base del recesso ponga condotte comunque suscettibili di pregiudicare il rapporto di fiducia tra le parti.” (Cass. 17 gennaio 2011, n. 897; Cass. s.u. 30 marzo 2007, n. 7880, Cass. n. 6367/2021, Cass. 2553/2015). La violazione di dette garanzie si traduce da un lato nella non valutabilità delle condotte causative del recesso, dall’altro nell'applicazione delle conseguenze fissate dalla contrattazione collettiva di categoria per il licenziamento privo di giustificazione, non potendosi per motivi, oltre che giuridici, logico-sistematici assegnare all'inosservanza delle garanzie procedimentali effetti differenti da quelli che la stessa contrattazione fa scaturire dall'accertamento della sussistenza dell'illecito disciplinare o di fatti in altro modo giustificativi del recesso, dovendosi far riferimento, in mancanza di una specifica disciplina, ai criteri di cui all'art. 2099, secondo comma, cod. civ. (Cass. n. 897/2011). Le stesse Sezioni Unite (Cass. SS.UU. 30 marzo 2007, n. 7880) avevano infatti rilevato “l'applicabilità da un lato della L. n. 300 del 1970, art. 7 ad ogni dirigente e dall’altro l'identità sul piano degli effetti di un licenziamento non preceduto dalla procedura contestativa a quello privo di giustificatezza” ribadendo la non equiparabilità del licenziamento privo di giustificato motivo ex L. n. 604 del 1966, art. 3 al licenziamento privo di "giustificatezza", per il quale può rilevare qualsiasi motivo di licenziamento, purché apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore di lavoro. Nel caso in esame si legge nella lettera di recesso “ Lei è stato assunto (omissis) giugno 2019 come Direttore dello stabilimento. Già fine anno 2019, abbiamo verificato, come previsto, che gli obiettivi fissati sia pure in maniera informale nella lettera del (omissis) giugno 2019 erano stati o meno raggiunti . Dall’analisi è risultato che ; per l’obiettivo manutenzione, non sono stati assunti né il magazziniere, né il meccanico, lasciando il settore manutenzione praticamente nell’abbandono; non è stato organizzato il servizio di manutenzione preventiva; non si è avuta una riduzione dei costi di manutenzione; per l’obiettivo produzione, non solo non si è realizzato l’incremento preventivato, ma il volume produttivo si è ridotto tanto che si è alterato anche il ritmo degli approvvigionamenti con soste in rada delle navi fornitrici non previste e, quindi, molto costose. Quanto sopra dopo che per mesi abbiamo formulato interrogazioni senza avere risposta, sulle continue problematiche che si presentavano in produzione in aggiunta a quelle esistenti al momento della sua assunzione. Per tali motivi riteniamo sia venuta meno la nostra fiducia sul suo operato e sulla corrispondenza delle sue perculiarità personali con il ruolo affidatole in azienda. Nel rispetto quindi delle sua persona e per non dover intraprendere antipatiche dispute tecniche preferiamo troncare da subito il nostro rapporto di lavoro indennizzandole il preavviso….”. Non è controverso tra le parti che il recesso datoriale non è stato preceduto dalla contestazione degli addebiti e, stante il tenore letterale delle espressioni usate, correttamente il primo giudice ha ritenuto la natura disciplinare del licenziamento, essendo stato lo stesso determinato dal mancato superamento degli obiettivi, non senza evidenziare una complessiva condotta negligente e inadeguata, non solo rispetto al perseguimento dei risultati programmati, ma anche nella tenuta dei rapporti con la leadership aziendale, imputando al lavoratore di non aver fornito risposte alle interrogazioni rivoltegli, perseverando il medesimo in un comportamento refrattario e non collaborativo. La violazione delle garanzie di cui all’art. 7 St. Lavoratori conduce pertanto alla declaratoria di illegittimità del licenziamento cui consegue, sul piano degli effetti, in ragione del rimedio risarcitorio apprestato, il pagamento dell’indennità supplementare. Con il quarto motivo di impugnazione principale l’appellante ha lamentato la violazione da parte del Tribunale della norma di cui all’art. 19 comma 15 CCNL Dirigenti delle aziende industriale e dell’art. 113 c.p.c., prevedendo la disciplina collettiva che “’indennità supplementare omnicomprensiva, è pertanto fissata in un numero di mensilità pari al corrispettivo del preavviso” pari dunque a 4 e non, come invece ritenuto nella sentenza di primo grado ad 1 sola mensilità. Il motivo è fondato. La clausola contrattuale in esame prevede in particolare “una indennità supplementare delle spettanze contrattuali di fine lavoro, omnicomprensiva, nel rispetto dei parametri seguenti: - Fino a 2 anni di anzianità aziendale, 4 mensilità pari al corrispettivo del preavviso. - Oltre i 2 anni e fino a 6 anni di anzianità aziendale, da 4 a 8 mensilità pari al corrispettivo del preavviso. - Oltre i 6 anni e fino a 10 anni di anzianità aziendale, da 8 a 12 mensilità pari al corrispettivo del preavviso. - Oltre i 10 anni e fino a 15 anni di anzianità aziendale, da 12 a 18 mensilità pari al corrispettivo del preavviso carico dell’azienda. - Oltre i 15 anni di anzianità aziendale, da 18 a 24 mensilità pari al corrispettivo del preavviso”. Si osserva che, mentre per anzianità aziendali superiori ai 2 anni, sono previsti 4 diversi scaglioni, con fissazione di un numero minimo e massimo di mensilità, con riferimento a ciascuno, solo per l’anzianità fino a 2 anni non è previsto un minimo ed un massimo bensì “4 mensilità pari al corrispettivo del preavviso”. Stante l’efficacia normativa delle disposizioni collettive, deve ritenersi che, in quest’ultimo caso, a differenza degli altri, il parametro impone una misura fissa e pari a 4 mensilità. Infatti diversamente da quanto prospettato nell’appello incidentale della datrice di lavoro, per quanto si tratti di “parametri”, la norma contrattuale non lascia dubbi circa il fatto che non ci si possa discostare dalla misura di 4 mensilità, solo considerando che, al contrario, le parti sociali avrebbero utilizzato la diversa espressione “fino a 4 mensilità”, lasciando, in tal caso, ampio margine al giudice di valorizzare una molteplicità di fattori anche diversi dalla mera anzianità di servizio. Né si può escludere, anzi appare ragionevole ritenere, che la previsione di una misura fissa di 4 mensilità risponda ad un legittimo interesse delle parti, con riferimento alla fascia più bassa di anzianità, di non causare una compressione dell’interesse del lavoratore in misura eccessiva o inferiore a quella minima garantita, pari appunto a 4 mensilità. L’indennità supplementare, secondo il tenore delle espressioni usate, è stata infatti determinata nel rispetto di parametri espressi, graduata dalle parti sociali in relazione alla anzianità di servizio, senza che possa procedersi ad una diversa quantificazione in relazione ad altre circostanze del licenziamento o del rapporto. Il giudice di primo grado dunque non avrebbe dovuto ridurre equitativamente ad una sola mensilità la misura dell’indennità supplementare, pertanto in riforma della sentenza impugnata, l’importo della stessa va quantificato nella misura prevista di 4 mensilità, al cui pagamento è condannata la società V srl. Con il quinto motivo di impugnazione principale, l’appellante ha censurato la pronuncia di primo grado che ingiustamente ha rigettato la domanda di risarcimento danno da perdita di chance in relazione al mancato pagamento della somma di € (omissis), quale premio annuale, cui aspirava X, in caso di raggiungimento degli obiettivi, in ragione del fatto che il mancato raggiungimento è dipeso dall’esclusiva condotta datoriale e da una inadeguata valutazione del lavoro svolto, precocemente operata rispetto ai tempi programmati di definizione. Ha insistito in particolare sull’ammissione della prova per testi articolata in primo grado ma rigettata dal Tribunale. Va anzitutto rilevato che l’appellante principale ha ribadito quanto già contestato nel ricorso introduttivo e cioè che potesse ravvisarsi negligenza da parte sua nel raggiungimento degli obiettivi e che la valutazione era stata operata dalla datrice di lavoro con eccessivo anticipo, a distanza di appena 6 mesi dall’assunzione, evidenziando altresì i positivi risultati raggiunti con riguardo all’incremento della produttività e alla soluzione del problema delle acque barometriche e l’assoluta ingerenza esercitata da parte dell’amministratore delegato in ordine agli obiettivi non raggiunti, richiedendo l’ammissione di una corposa prova per testi. Anche la datrice di lavoro, nel contestare a sua volta le allegazioni avversarie, ha parimenti articolato prova diretta e contraria. Meritando la questione il dovuto approfondimento, va disposta la prosecuzione del giudizio con rimessione della causa in istruttoria, nei termini indicati dall’ordinanza allegata alla presente sentenza, rinviando la regolamentazione delle spese alla pronuncia definitiva. P.Q.M. Non definitivamente pronunciando, in parziale riforma della sentenza impugnata, - Quantifica l’indennità supplementare dovuta nella misura di 4 mensilità del corrispettivo del preavviso; - Dispone con separata ordinanza la prosecuzione del giudizio, in ordine alla domanda di risarcimento danni da perdita di chance avanzata al capo e) delle conclusioni del ricorso di primo grado.

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