Studio legale Valentini
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24/09/2024 Tribunale di Pesaro – Sent. 669-2024 – Est. Melucci
25/10/2024
1 - Con atto di citazione in data 1.12.2022 A, premesso d’essere proprietaria del fabbricato (omissis), conveniva in giudizio B, proprietario della contigua unità immobiliare, esponendo: che, a causa della carente manutenzione di detta unità immobiliare, la proprietà della stessa attrice, inclusi due vani posti a piano terra del fabbricato dello stesso convenuto, era oggetto di fessurazioni determinanti pericolo di crollo; che, il consulente tecnico, in sede di accertamento preventivo, aveva individuato le cause del danno nello stato di degrado del sistema di smaltimento delle acque piovane nel tetto della proprietà del convenuto e nell’assenza di fondazioni del medesimo fabbricato, indicando anche gli interventi di ripristino; che, inoltre, il canneto di bambù posto nella proprietà del convenuto aveva danneggiato il muro a confine delle due proprietà; che il convenuto aveva piantato una “vite americana” in violazione delle distanze, i cui rami avevano invaso la proprietà dell’attrice, danneggiandola; che il convenuto, con il transito di “mezzi pesanti”, aveva lesionato la pavimentazione in mattoni dell’attrice; che il convenuto era obbligato a concorrere alla spesa di manutenzione del pozzo di proprietà dell’attrice, su cui esercitava una servitù “di presa d’acqua”. Tanto premesso, l’attrice, deducendone la responsabilità ex artt. 2051 e 2053 c.c., domandava che il convenuto fosse condannato: a) all’esecuzione, a sue spese, delle opere necessarie all’eliminazione delle cause delle lesioni riscontrate nel fabbricato di proprietà della stessa attrice e nel muretto posto a confine come indicati dal consulente d’ufficio, ovvero fosse condannato al pagamento di €.(omissis) pari al costo stimato degli interventi di ripristino o della diversa somma di giustizia, oltre interessi; b) al rimborso dei costi sostenuti dall’attrice per la consulenza d’ufficio nella misura di €.(omissis), nonché alle spese di consulenza di parte pari ad €.(omissis); c) all’estirpazione della “vite americana” e relative ramificazioni, nonché alla pulizia e tinteggiatura della facciata del suo fabbricato o, in subordine, a pagarne i relativi costi pari ad €.(omissis) od a quella diversa di giustizia, oltre rivalutazione ed interessi; d) al pagamento di €.(omissis) o della diversa somma di giustizia pari ai costi di ripristino della pavimentazione, oltre interessi e rivalutazione; e) al pagamento di €.(omissis) o della diversa somma di giustizia, pari alla quota di spese di manutenzione del pozzo, oltre rivalutazione ed interessi. Si costituiva B, il quale contestava le domande, eccependo che le lesioni erano imputabili all’intervento eseguito dal padre dell’attrice nel 1972 sulle fondazioni del fabbricato, senza autorizzazione del Genio civile, né preventivo accordo con lo stesso convenuto, nonostante la condominialità dell’intero fabbricato; che gli interventi di ripristino indicati dal consulente d’ufficio erano dannosi e non conformi alle norme tecniche; che il dritto al risarcimento era prescritto; che il canneto infestante (bambù) era stato piantato dall’attrice; che la vite americana era in situ da oltre venti anni e le facciate su cui poggiavano i rami erano condominiali. Concludeva, pertanto, per il rigetto della domanda ed, in via riconvenzionale, domandava: a) che fosse “approvato il riparto millesimale”; b) che l’attrice fosse condannata al ripristino delle fondazioni; c) che le spese delle ulteriori “opere da eseguire alle parti comuni” fossero imputate alle parti secondo il riparto millesimale. In istruttoria, erano escussi alcuni testimoni ed avevano corso due consulenze tecniche. La causa, quindi, sulle opposte conclusioni delle parti, come in epigrafe trascritte, passava in decisione all’udienza del 9.5.2024. 2 – Le domande delle parti vanno separatamente esaminate. 2.1 – L’attrice, lamentando l’esistenza di “lesioni” nei due vani di sua proprietà posti al piano terra del fabbricato di proprietà del convenuto, con “pericolo di crollo dell’intero edificio”, domanda, in primis, la condanna di quest’ultimo all’esecuzione delle opere “necessarie all’eliminazione delle cause delle lesioni”, come individuate dal consulente d’ufficio con riferimento al sistema di scarico delle acque provenienti dal tetto ed alle fondazioni del fabbricato del convenuto. Questi eccepisce la prescrizione (v. comparsa di risposta pg. 37) ed oppone una contestazione preliminare, assumendo che l’intero immobile, sia per la parte di proprietà dell’attrice, sia per la parte di proprietà del convenuto, costituirebbe un edificio condominiale, donde la necessità di ripartire la spesa in proporzione al valore delle proprietà esclusive (v. comparsa di risposta pg. 32 ss.). 2.1.1 - Quanto alla prescrizione, si rileva che, allorquando si lamenti – come nella specie - un danno ad un immobile per effetto della creazione di uno stato di fatto e si domandi l'eliminazione di questo ed il risarcimento del danno cagionato all'immobile, sia l'illecito costituito dalla creazione dello stato di fatto quale fonte di danno come tale all'immobile, sia l'illecito rappresentato dalla verificazione di danni all'immobile, in quanto originantisi come effetti della presenza dello stato di fatto, hanno natura di illeciti permanenti, con la conseguenza che il termine di prescrizione della pretesa di risarcimento in forma specifica mediante rimozione dello stato di fatto non decorre dall'ultimazione dell'opera che lo ha determinato, in quanto la condotta illecita si identifica nel fatto del mantenimento dello stato di fatto che si protrae ininterrottamente nel tempo (cfr. Cass. 2023 n. 4677). Nella fattispecie si è al cospetto di un'ipotesi di illecito con effetti permanenti, in quanto l’omessa manutenzione dell’immobile, quale condotta causativa del danno, ha effetti destinati a rimanere o anche ad ampliarsi nel tempo, sicché la prescrizione, alla stregua del principio testé ricordato, non è decorso. L’eccezione è, dunque, infondata. 2.1.2 – Quanto alla seconda contestazione, si rileva che innegabilmente il “fabbricato B” è un condominio, giacché al piano terra dell’edificio, di cui è proprietario il convenuto in base al titolo negoziale, si trovano due vani di proprietà dell’attrice (pacifico: v. citazione pg. 2; comparsa di risposta pg. 9), che “addentrandosi” nella proprietà del convenuto, hanno in comune con questo la copertura, il suolo su cui sorge il fabbricato ed i muri maestri (art. 1117 c.c.). Poiché sono proprio questi i due locali oggetto della domanda, in quanto interessati dal cedimento del fabbricato del convenuto (v. citazione pg. 3), mentre il fabbricato dell’attrice “non ha attualmente lesioni e si presenta in buone condizioni statiche” (v. prima relazione c.t.u. V), si pone la questione – invero appena accennata dalla difesa convenuta nelle conclusioni finali (v. memoria 15.4.2024 pg. 2) – dell’ammissibilità della invocata tutela alla luce della preclusione di cui all’art. 1105 ultimo comma c.c. La norma predispone, in materia di comunione, uno specifico rimedio per il caso in cui non si formi una maggioranza ai fini dell'adozione dei provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune, stabilendo che ciascun partecipante può ricorrere all'autorità giudiziaria, affinché quest'ultima, provvedendo in camera di consiglio, e quindi in sede di volontaria giurisdizione, adotti gli opportuni provvedimenti, nominando eventualmente un amministratore giudiziario. Ed al riguardo la S.C. ha avuto modo di statuire che, in presenza del suindicato specifico rimedio non contenzioso, è precluso al singolo partecipante alla comunione di rivolgersi al giudice in sede contenziosa (cfr. Cass. 1982 n. 4213). La menzionata preclusione concerne, tuttavia, esclusivamente la gestione della cosa comune, ai fini della sua amministrazione (comprensiva anche della manutenzione) nei rapporti interni tra i comunisti, e non opera, per converso, in relazione ad iniziative giudiziarie contenziose promosse dai comunisti in qualità di terzi. E siffatta qualità assumono indubbiamente i comunisti, qualora facciano valere in giudizio la loro posizione di proprietari di cose estranee alla comunione, che dalla rovina della cosa di cui sono comproprietari subiscono pregiudizio. Si è così affermato che "la previsione, ad opera dell'art. 1105, comma 4, c.c., in materia di comunione, per il caso in cui non si formi una maggioranza ai fini dell'adozione dei provvedimenti necessari per l'amministrazione della cosa comune, dello specifico rimedio del ricorso, da parte di ciascun partecipante all'autorità giudiziaria perché adotti gli opportuni provvedimenti in sede di volontaria giurisdizione, preclude al singolo partecipante alla comunione di rivolgersi al giudice in sede contenziosa. Tale preclusione concerne tuttavia esclusivamente la gestione della cosa comune, ai fini della sua amministrazione nei rapporti interni tra i comunisti, e non opera, per converso, in relazione ad iniziative giudiziarie contenziose promosse dal comunista in qualità di terzo, come avviene nel caso in cui il comunista faccia valere in giudizio la posizione di proprietario di cose estranee alla comunione, che dalla rovina della cosa di cui è comproprietario abbiano subito pregiudizio” (Cass. 1998 n. 8876; conforme Cass. 2022 n. 19863; v. anche Cass. 2020 n. 11802, in una fattispecie di domanda diretta di esecuzione degli interventi per eliminare le cause determinative del danno). L’attrice, con l’atto introduttivo del giudizio, lamenta che l’unità immobiliare di sua proprietà è da tempo soggetta a fenomeni di dissesto a causa della mancata manutenzione della ammalorata copertura dell’edificio e delle sue fondazioni con richiesta di rimessione in pristino. L’attrice, pertanto, non si è limitata a dedurre la mancata adozione di provvedimenti per la manutenzione straordinaria del tetto comune, ma ha specificamente lamentato che tale situazione sta causando danni alla unità immobiliare di sua proprietà esclusiva e ha chiesto anche il risarcimento dei danni. Ne consegue che avendo l’attrice inteso far valere i danni subiti dalla sua proprietà esclusiva per effetto della difettosa manutenzione dei beni comuni, la domanda può essere avanzata in sede di cognizione ordinaria, e trova titolo nell'obbligo ex lege del proprietario di un edificio di vigilare su di esso e di compiere gli interventi necessari ad evitare che dalla rovina della costruzione possano derivare danni a terzi risulta (art. 2053 c.c. che integra un'ipotesi particolare di danno da cose in custodia ex art. 2051 c.c.). Ciò posto, si rileva che il consulente tecnico, a seguito di indagini accurate, anche strumentali e di laboratorio, ha rilevato che il fabbricato B, a differenza di quello di proprietà esclusiva della A (“che non ha alcuna lesione e si presenta integro”: v. seconda relazione c.t.u. V), è oggetto di un diffuso cedimento delle fondazioni, a causa dell’avanzato stato di degrado del sistema di smaltimento delle acque piovane dalla copertura, i cui i reflui scaricano liberamente sino al piede della muratura senza alcun sistema di raccolta e trasporto, per poi confluire in modo incontrollato sino al piano di fondazione, modificando così le caratteristiche fisiche e volumetriche del terreno su cui sorge l’edificio. Ciò avviene – spiega il consulente – perché il terreno sabbioso-limoso del “fabbricato B” è sottoposto a riduzione di volume per riposizionamento o riordino dei grani a causa della migrazione delle particelle sabbiose, dovuta alle continue e cicliche infiltrazioni di acque piovane provenienti in grande quantità dai discendenti, e ciò a differenza del fabbricato A che, poggiando su un terreno argilloso-limoso e avendo un portico che ha regolarizzato la perdita di umidità, non è soggetto a lesioni (v. prima relazione c.t.u. V). Nessuna rilevanza causale sul dissesto hanno le opere eseguite nel lontano 1972 sulle fondazioni del fabbricato A, che non hanno interessato “il perimetro fondale” del fabbricato B, “né la sua consistenza” (v. prima relazione c.t.u. V). Il consulente ha anche descritto gli interventi di ripristino, che implicano non solo l’esecuzione delle opere di smaltimento delle acque – la cui “sicura efficacia” è riconosciuta dallo stesso convenuto (v. comparsa di risposta pg. 12; seconda memoria pg. 22) rimasto però colpevolmente inerte – ma anche la realizzazione di un intervento di sottofondazione (si rimanda ai dettagliati e motivati rilievi esposti nelle relazioni del c.t.u. V). Per quanto esposto, la domanda di parte attrice diretta alla condanna del convenuto all’esecuzione delle opere di eliminazione della causa del dissesto va accolta con riferimento agli interventi individuati dal c.t.u. nella relazione in sede di a.t.p. (pg. 15, 16 e relativo computo metrico), ossia “sistemazione del sistema di raccolta e scarico delle acque piovane della copertura con sostituzione dei tratti di grondaia e discendenti danneggiati, nel caso sostituire tutta la grondaia; realizzazione di sottofondazioni costituite da micropali con cordolo su ambo i lati tipo Tubfix con armatura in acciaio tubolare di profondità minima di 11 metri per le fondazioni muri di spina; pali tradizionale disposti a quinconce con trave di collegamento tradizionale e tratti passanti sotto le fondazione con profili HEB in ferro annegate nel calcestruzzo per le fondazioni dei muri esterni, il tutto meglio specificato nel computo metrico e disegni; impermeabilizzazione della trave di collegamento dei pali con risvolto sulla muratura; cuci e scuci nei punti più problematici della muratura; rifacimento di intonaco nei tratti cuci e scuci; sistemazione delle più importanti lesioni esterne e interne con malte e/o stucchi elastici; tinteggiatura”), con la “variante” di cui al punto 5 delle “Risposte alle osservazioni dei CC.TT.PP” allegate alla relazione 29.1.2024 (“non è più necessario intervenire lato A (Casa colonico). Si dovranno quindi posizionare i pali inizialmente previsti lato fabbricato A nel lato fabbricato B con la posa in opera di profili HEB da 140 mm così come previsti per l’opera di fondazione dei muri maestri perimetrali esterni (con una soluzione di collegamento tra micropali e fondazione esistente progettata per non trasmettere importanti sollecitazioni flessionali ai micropali). 2.2 – Parte attrice domanda, altresì, che il convenuto sia condannato al risarcimento del danno patito dal “muretto posto a confine delle due proprietà”, deducendone il danneggiamento in conseguenza della crescita incontrollata di un canneto di bambù posto sulla proprietà dello stesso convenuto. Questi, nella prima difesa (come pure nella prima memoria ex art. 183 c.p.c.), non ha contestato il danneggiamento, di cui è data conferma anche nella relazione del c.t.u., né la causa dell’avaria, assumendo unicamente che il canneto, ricadente nella sua proprietà, sarebbe stato piantato dall’attrice, ma di ciò non ha dato alcuna prova. Il danno resta, dunque, imputabile al convenuto, che è obbligato al risarcimento del danno nell’importo di €.(omissis), pari al costo di ripristino, ai valori attuali, stimato dal consulente d’ufficio. 2.3 – Altre domande hanno ad oggetto la “vite americana”. 2.3.1 – L’attrice chiede, in primis l’estirpazione della pianta, in quanto posta a distanza inferiore a quella di legge rispetto al confine. La pianta si trova sul confine (pacifico), per cui non rispetta la distanza prevista per le viti, pari a mezzo metro dal confine (art. 892 comma 1 n. 3 c.c.). Ne dà conferma ad abundantiam la consulenza tecnica (v. relazione S pg. 4), e segnatamente la planimetria ad essa allegata (allegato 8). Il convenuto oppone, al riguardo, d’aver acquistato per usucapione il diritto di mantenere la pianta a distanza inferiore a quella di legge. La servitù di tenere alberi e piante a distanza minore di quella legale è acquisibile anche in via di usucapione (cfr. Cass. 1980 n. 2555), ma si richiede che il possesso, per condurre all’acquisto a titolo originario, sia non solo della durata prescritta dalla legge (art. 1158 c.c.), ma anche continuo (art. 1167 c.c.) e pacifico (art. 1163 c.c.). Il convenuto ha dedotto unicamente che la pianta sarebbe “in situ da oltre 20 anni” e dunque la durata dello stato di fatto, invero non contestata, ma nulla ha allegato, né tanto meno provato, circa gli indicati requisiti di qualità (continuità, pacificità) del possesso. L’eccezione di usucapione è, dunque, infondata, e la domanda di parte attrice – imperscrittibile, siccome inerente al diritto di proprietà – va accolta. 2.3.2 – Domanda ancora l’attrice la condanna del convenuto alla “rimozione dei viticci esistenti sulla proprietà” della stessa attrice ed alla rimessione in pristino della facciata dell’immobile. L’attrice quale proprietaria ha il diritto alla recisione dei rami della pianta che si protendono sul proprio fondo dal quello vicino (art. 896 c.c.), non essendo peraltro ammissibile l’acquisto per usucapione del diritto di far propendere i rami del proprio fondo su quello confinante (cfr. Cass. 2002 n. 4361). Le fotografie allegate dall’attrice, che ritraggono i luoghi di causa (pacifico), danno prova della propagazione dei rami e del danneggiamento della facciata dell’immobile di parte attrice invasa dai tralci della vite. La consulenza tecnica ha dato conferma dello sviluppo della pianta sulla parete che delimita il porticato della proprietà A (v. relazione S pg. 4, fotografie allegato 9; planimetria allegato 8) La domanda di risarcimento (in forma specifica) va, dunque, accolta con condanna del convenuto alla recisione dei rami ed alla rimessione in pristino della facciata dell’immobile di parte attrice mediante esecuzione degli interventi descritti dal consulente tecnico (v. relazione S pg. 4 e relativo computo metrico, allegato 5). 2.4 – Domanda, infine, l’attrice il risarcimento dei danni cagionati dal convenuto alla pavimentazione in mattoni del piazzale dell’immobile della stessa attrice in conseguenza del passaggio di automezzi, anche pesanti. Su questa pretesa non è sollevata in comparsa di risposta (come pure nella prima memoria ex art. 183 c.p.c.) alcuna contestazione, e quindi è pacifica (art. 115 c.p.c.) sia la sussistenza dei danni, sia il nesso di causa rispetto all’indicata condotta. La consulenza tecnica, che ha dato conferma dell’esistenza delle avarie (mattoni smossi e spezzati) su una piccola superficie (2 mt. per 2 mt.), contiene anche la descrizione delle opere di sistemazione ed il relativo costo ai valori attuali. La domanda di risarcimento (per equivalente) va, dunque, accolta con condanna del convenuto al pagamento della somma di €.(omissis). 2.5 – Da ultimo, si chiede dall’attrice che il convenuto, quale titolare del fondo dominante, sia condannato “al rimborso” delle spese necessarie per la manutenzione dell’opera (pozzo), posto sul fondo servente e destinato all’esercizio della servitù di presa d’acqua, di cui lo stesso convenuto è titolare Parte attrice richiama al riguardo l’art. 1069 c.c., il quale, nel regolare le opere sul fondo servente, prevede al terzo comma che, se le opere necessarie per conservare la servitù giovano a entrambi i fondi, servente e dominante, le relative spese debbano essere ripartite in proporzione dei rispettivi vantaggi. L’evocazione dell’art. 1069 c.c. non è, tuttavia, pertinente, né può fondare la pretesa, stante che la disposizione in parola legittima il solo proprietario del fondo dominante, e non altri, pur aventi un interesse al mantenimento in buono stato della servitù, ad effettuare le opere necessarie per conservare la servitù (cfr. Cass. 2023 n. 9613), e dunque a domandare la rifusione delle relative spese in misura proporzionale all’altrui vantaggio. L’attrice non ha, dunque, titolo per ripetere il pagamento delle spese in questione – peraltro neppure sostenute – per cui la domanda deve essere respinta. 3 – Vanno infine esaminate le riconvenzionali. Il convenuto domanda che, accertata la sussistenza di un condominio su entrambi i fabbricati delle parti con conseguente comproprietà di fondazioni e copertura, la convenuta sia condannata alla riduzione in pristino delle fondazioni, illecitamente modificate nel 1972 senza assenso dello stesso convenuto, comproprietario; che sia “approvata” la tabella millesimale 3.1 – Riguardo alla prima domanda, si rileva che la presunzione legale di comunione di talune parti dell'edificio condominiale, stabilita dall'art.1117 c.c., si basa sulla loro destinazione all'uso ed al godimento comune e deve risultare da elementi obiettivi, cioè dall’attitudine funzionale della parte di cui trattasi al servizio od al godimento collettivo, intesa come relazione strumentale necessaria tra questa parte e l'uso comune. La presunzione di condominialità è dunque applicabile (come ora espressamente stabilito dall’art.1117 bis c.c., introdotto alla L. n. 220 del 2012) anche quando si tratti non di parti comuni di uno stesso edificio, bensì di parti comuni di edifici limitrofi ed autonomi, oggettivamente e stabilmente destinate alla conservazione, all'uso od al servizio di tali edifici, ancorché insistenti su un'area appartenente al proprietario (o ai proprietari) di uno solo degli immobili. In simile ipotesi, però, la presunzione è invocabile solo se l'area e gli edifici siano appartenenti ad una stessa persona - od a più persone "pro indiviso" - nel momento della costruzione della cosa o del suo adattamento o trasformazione all'uso comune, mentre, nel caso in cui l'area sulla quale siano state realizzate le opere destinate a servire i due edifici sia appartenuta sin dall'origine ai proprietari di uno solo di essi, questi ultimi acquistano per accessione la proprietà esclusiva delle opere realizzate sul loro fondo, anche se poste in essere per un accordo intervenuto tra tutti gli interessati e/o col contributo economico dei proprietari degli altri edifici (cfr. Cass. 2019 n. 17022; Cass. 1993 n. 4881; Cass. 1990 n. 3483; Cass. 1980 n. 3910). Ciò posto, quanto alle due unità immobiliari di cui è causa – per comodità indicati in atti come “fabbricato A” e “fabbricato B” - si tratta di edifici divisi non solo in base alla titolarità dei rispettivi diritti dominicali, ma – ed è l’aspetto di rilievo - anche strutturalmente, in quanto aventi una differente tessitura muraria (come evidenziato dalle indagini termografiche del c.t.u.), ed essendo fisicamente separati l’uno dall’altro da una intercapedine, anche nel sistema fondativo (come accertato dal consulente d’ufficio a seguito di indagini strumentali segnatamente sul muro di spina). L’esistenza dell’intercapedine ha peraltro impedito – a riprova del materiale distacco – la diffusione del cedimento del fabbricato B alla proprietà A (v. seconda relazione c.t.u. V: Il fatto che ci troviamo dinnanzi a due unità strutturali, desumibile dal fatto che sono state realizzate in periodi differenti, con altezze di interpiano differenti, tipologie degli orizzontamenti differenti, è reso manifesto dal comportamento disomogeneo delle due unità strutturali, a seguito del cedimento fondale nel fabbricato B”). Gli edifici non sono, dunque, in aderenza, né tanto meno in appoggio, e “sono in realtà due unità strutturali indipendenti, ognuno con un proprio sistema fondale” (v. seconda relazione ctu V). L’autonomia dei due fabbricati è confermata dallo sviluppo storico del complesso edilizio, che evidenzia l’iniziale costruzione della “casa colonica” (poi divenuta proprietà dell’attrice), e quindi, a distanza di tempo, del “casino di villeggiatura” (divenuto di proprietà del convenuto), come dimostra la (documentata e circostanziata) ricostruzione operata dal consulente di parte (v. relazione Z, doc. 1 prima memoria attrice). Si tratta, in definitiva, di due unità indipendenti ed autonome, che hanno propri muri maestri, una propria copertura e proprie fondazioni, strutturalmente diverse, giacché solo l’immobile dell’attrice è dotato di un sistema di fondazioni, realizzato nell’estate del 1972 (v. comparsa di risposta pg. 9, 28, 39; conclusionale convenuto pg. 62 in fine, pg. 64 sub b, pg. 65, 66, 67 sub 2, 68), dopo il frazionamento del fabbricato a seguito della vendita dall’originario proprietario (con rogito del 1971), mentre l’edificio del convenuto è privo di vere e proprie fondazioni (vi è invero solo un approfondimento della quota di imposta del muro per mt. 0,70 senza allargamento della base per rendere compatibile il carico della struttura alle caratteristiche del terreno: v. prima relazione c.t.u. V). In sostanza, al momento del frazionamento, il complesso immobiliare non aveva fondazioni, che sono state realizzate solo dall’attrice nel proprio edificio, di modo che le “fondazioni” dei due fabbricati si trovano ora “non collegate tra loro” (v. comparsa di risposta pg. 31). In difetto, dunque, di un dato di fatto ineludibile, cioè il collegamento strutturale, materiale o funzionale, ovvero quella relazione di accessorio a principale riguardo alle fondazioni (come pure al tetto e muri maestri), che costituisce il fondamento della condominialità, ai sensi dell’art. 1117 c.c., è da escludere che i due fabbricati costituiscano un condominio. Va, per l’effetto, negata l’illiceità dell’opera eseguita dall’attrice su beni di sua esclusiva proprietà. Del tutto irrilevante è, poi, la questione della illegittimità amministrativa dell’opera (per violazione delle norme che prescrivono il deposito al Genio civile), essendo sin troppo noto che, inerendo al rapporto fra P.A. e privato costruttore, quelle norme esplicano i loro effetti soltanto sul piano dei rapporti pubblicistici - amministrativi, penali e/o fiscali - e non hanno alcuna incidenza nei rapporti fra privati. La domanda riconvenzionale diretta alla “riduzione in pristino” dell’opera fondativa va dunque respinta. 3.2 – In ragione di quanto esposto (§ 2.1.2; § 3.1), è altresì da respingere la domanda volta alla determinazione giudiziale della tabella millesimale quanto al complesso edilizio costituito dai due fabbricati di proprietà delle parti. La domanda va, invece, accolta – nulla avendo peraltro opposto l’attrice – con riferimento alla tabella predisposta dal consulente d’ufficio (allegato 4, relazione S) per il “fabbricato B”, che si trova in regime di condominio in ragione della presenza al piano primo di vani di proprietà esclusiva dell’attrice (v. supra § 2.1.2). 3.3 – Da respingere, infine, è la domanda riconvenzionale diretta a “ripartire le ulteriori opere da eseguire alle parti comuni dell’edificio”, in quanto generica nell’indicazione degli interventi da eseguire. 4 – Le spese di lite, anche della fase di accertamento, seguono la soccombenza. Sono escluse le spese di consulenza di parte, in mancanza di prova dell'esborso sopportato dalla parte vittoriosa (cfr. Cass. 2022 n. 21402). Le spese della consulenza tecnica per la determinazione dei millesimi, di interesse comune, vanno poste a carico delle parti in quote uguali. P.Q.M. Il Tribunale di Pesaro, definitivamente pronunciando sulla causa promossa da A contro B, così provvede: 1) condanna B all’esecuzione delle opere individuate dal consulente tecnico d’ufficio, ing. V, nella relazione di accertamento tecnico preventivo (pg. 15, 16 e computo metrico “estimativo opere da realizzare”) e nella relazione in data 29.1.2024 con relativi allegati; 2) condanna B ad estirpare la vite americana posta a distanza inferiore al confine tra gli immobili delle parti, nonché a recidere i rami di detta pianta che si protendono sul fondo di A ed alla rimessione in pristino della facciata dell’immobile di parte attrice mediante esecuzione degli interventi descritti dal consulente tecnico (v. relazione S pg. 4 e computo metrico, allegato 5); 3) condanna B al risarcimento dei danni al muro di confine mediante pagamento in favore di A di €.(omissis), oltre interessi legali dalla presente sentenza al saldo; nonché al risarcimento dei danni alla pavimentazione di cui è causa mediante pagamento in favore di A di €.(omissis), oltre interessi legali dalla presente sentenza al saldo; 4) dichiara che le spese del fabbricato in condominio sito in Comune di W, censito nel catasto fabbricati di detto Comune al foglio (omissis), mappale (omissis), sono ripartite tra i condomini A e B secondo la tabella millesimale di cui all’allegato 4 della relazione del c.t.u. S; 5) respinge le restanti domande delle parti; 6) condanna B a rifondere a A le spese di lite, (omissis)