Diffamazione a mezzo stampa- illecito civile- trasmissione televisiva- criteri- sussistenza

17.9.2018 Corte di Appello Sent. n. 1911/2018 Pres. e Rel. Castagnoli

28/01/2019

A, emittente televisiva, propone appello avverso la sentenza n.758 del Tribunale di Pesaro emessa in data 26.10.2012 e pubblicata il 27.10.2012, che ha condannato B, C e lo stesso appellante A al pagamento del risarcimento del danno in solido tra loro nei confronti di D oltre al pagamento delle spese processuali. Convengono in giudizio B, C e D chiedendo alla Corte adita di acclarare l’insussistenza del diritto al risarcimento del danno nei riguardi di A da parte di D, in relazione alle dichiarazioni rese nel corso della puntata del 14.06.07 della trasmissione televisiva X e in quella successiva  del 25.02.08.
Si costituisce in giudizio D, contestando gli assunti avversari in quanto infondati, sia in fatto che in diritto, e proponendo, al contempo, appello incidentale con il quale chiede alla Corte adita, in riforma parziale dell’impugnata pronuncia, di condannare A, B e C in solido ovvero disgiuntamente al pagamento del risarcimento del danno morale da lui subito per la somma almeno di € 500.000,00, di condannare A in persona del legale rappresentante pro tempore in solido ovvero disgiuntamente con C al versamento della sanzione pecuniaria  prevista dall’articolo 12 della legge n. 47/1948 da determinarsi in via equitativa in almeno 100.000,00, di ordinare la divulgazione per estratto dell’emananda sentenza e di quella di primo grado in apertura del telegiornale regionale Rai Marche e la pubblicazione della stessa su alcuni quotidiani.
Gli appellati B, e C non si costituiscono in giudizio.
L’appellante A, a sostegno della sua impugnazione, adduce i seguenti motivi:
- La violazione dell’articolo 21 della Costituzione da parte della sentenza di primo grado nel punto in cui essa afferma la non rispondenza al vero della dichiarazione di B. Tale dichiarazione concerne il fatto di aver messo in atto una campagna elettorale per l’assessore D in prossimità delle regionali del 2005 al fine di procurare a D una visibilità tale che gli permettesse di essere rieletto per la terza volta. La dichiarazione di B, invece, sarebbe confermata dalle risultanze istruttorie, essendo emerso che, nel periodo dal 2001 all’ottobre 2004, il Centro documentazione politiche per l’infanzia,  cui era addetto B, aveva pubblicato e diffuso 8 testi, mentre successivamente non ne veniva stampato neppure uno; ciò sino al mese di gennaio del 2005, dunque in prossimità delle elezioni regionali, quando ne venivano pubblicati e diffusi ben 4. Il Giudice di primo grado, infatti, aveva invece sostenuto che l’attività di pubblicazione, spedizione e divulgazioni era oggetto dell’attività istituzionale del Centro, e quindi non costituiva campagna elettorale.
- Non vi è incongruenza temporale tra le pubblicazioni dell’assessorato nel gennaio-febbraio 2005 e la tesi di B secondo il quale le stesse servissero a promuovere la candidatura dell’assessore D, come invece affermato dalla sentenza di primo grado, essendovi, anzi, perfetta coincidenza di tempi.
- La sentenza di primo grado cade in errore di prospettiva  nel ravvisare la portata diffamatoria delle dichiarazioni di B, il quale mai ha inteso imputare direttamente a D il proprio preteso demansionamento e il mancato rinnovo del contratto, essendo tali dichiarazioni riferite, piuttosto, all’ambiente politico-istituzionale dell’Assessorato.
- I giornalisti di A non hanno tenuto durante la trasmissione alcun comportamento lesivo dell’altrui reputazione, come invece affermato dalla sentenza di primo grado, avendo semplicemente esercitato il diritto di cronaca tutelato all’art. 21 della Costituzione, limitandosi ad ospitare le dichiarazioni di B su fatti di pubblico interesse. A contesta, inoltre, il fatto che il conduttore della trasmissione abbia manifestato la sua adesione a quanto riferito da B.
- La quantificazione del danno operata dal giudice di primo grado risulta immotivata, incongrua ed eccessiva, non essendo stato neppure pronunciato nel corso della trasmissione di giugno 2007 il nome di D ed avendo avuto la stessa intervista di B una durata di pochi minuti.
L’appellante incidentale D, a sua volta,  a sostegno della sua impugnazione, adduce i seguenti motivi:
-  Il quantum liquidato a titolo di risarcimento dei danni in suo favore dal giudice di primo grado è inadeguato e del tutto inidoneo a ristorare il pregiudizio patito, non essendo stato tenuto in debita considerazione il danno da diffamazione.
- D insiste nell’accoglimento della domanda di riparazione ex art. 12 l. 47/1048, asserendo  come la giurisprudenza abbia ormai da tempo esteso anche alla diffamazione commessa a mezzo di trasmissione televisiva rimedi che, in origine, erano applicabili solo alla diffamazione a mezzo stampa.
- L’impugnata sentenza non ha accolto la domanda di pubblicazione della sentenza ex art. 120 c.p.c. e 186 c.p., nonostante tale forma di riparazione rientrerebbe nell’obbligo giuridico e deontologico di ogni giornalista di rettificare le notizie sbagliate ex art. 32 quinquies del T.U. radiotelevisione. 
I motivi dell’appello principale attraverso i quali l’impugnata sentenza è stata censurata per aver ritenuto fondata nell’an la domanda svolta da D, esaminati unitariamente dalla Corte di Appello di Ancona a causa della loro stretta connessione, sono stati respinti dalla stessa Corte.
La Corte ha premesso che vi è legittimo esercizio del diritto di cronaca solamente quando vengano rispettate le seguenti condizioni:
a) Verità, oggettiva o anche soltanto putativa, purchè frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca. Verità che non sussiste quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano dolosamente o colposamente taciuti altri fatti tanto da alterare il significato dei primi, o quando i fatti riferiti siano accompagnati da allusioni e accostamenti idonei a creare nel lettore o ascoltatore medio una rappresentazione falsa della realtà oggettiva;
b) Continenza, sarebbe a dire il rispetto dei requisiti minimi di forma che devono caratterizzare la cronaca e anche la critica;
c) Sussistenza di un interesse pubblico all’informazione. 
Nel caso di specie, stando a quanto precisato da B in sede di  comparsa di costituzione e risposta di primo grado, in prossimità delle elezioni regionali del 2005 sarebbe stata messa in atto un’operazione di campagna propagandistica dell’operato dell’assessorato delle Politiche Sociali della Regione Marche al fine di creare “un pubblico movimento di opinione tale da indurre i vertici del partito di appartenenza dell’assessore a rimuovere una norma interna a tale formazione politica che prevedeva la non ammissibilità di un terzo mandato, in sede regionale, della stessa persona”, nella specie il dott. D, “già assessore alle politiche sociali e alla scadenza del secondo mandato”.  Tali dichiarazioni di B, secondo la Corte, evidenziano un dato fattuale, sarebbe a dire, che non si trattava di campagna elettorale in senso proprio, bensì, di un’attività volta a consentire la candidatura di D alle elezioni regionali. Il Tribunale di primo grado, inoltre, avrebbe correttamente posto in evidenza la portata diffamatoria delle dichiarazioni di B nel corso della trasmissione televisiva X con argomentazioni non scalfite da quelle poste a fondamento del gravame principale.  Tali dichiarazioni assumono particolare rilievo  alla luce delle “circostanze taciute o lasciate sullo sfondo, che rendono le dichiarazioni medesime avulse dal complessivo contesto di riferimento e, dunque, false e tese a far apparire una situazione fattuale diversa da quella reale e tendente a colorare in termini di manifesta e grave illiceità, anche sotto il profilo penale, la condotta tenuta dall’Assessore alle Politiche Sociali nel periodo immediatamente precedente le elezioni regionali del 2005”. B aveva infatti sostenuto che, alcune persone assunte dalla Regione Marche operanti nel settore delle politiche sociali, erano state distolte dalle attività istituzionali durante l’orario di lavoro per svolgere attività consistenti in pacchi, fotocopie, telefonate “per riuscire a far sì che il nostro assessore avesse visibilità e potesse essere eletto per la terza volta”. La ricostruzione fattuale operata dal Tribunale non è sostanzialmente contestata, infatti, poiché nel periodo che va dal 2001 al mese di ottobre 2004 il Centro aveva pubblicato e diffuso 8 testi e successivamente non ne veniva stampato neppure uno, ed è soltanto verso il mese di gennaio 2005 che riprendeva l’attività di pubblicazione con la diffusione di 4 opuscoli, si ritiene che sia ragionevole ipotizzare che una tale intensificazione dell’attività di pubblicazione in prossimità delle elezioni regionali sia stata messa in atto al fine di dare rilievo all’attività dell’assessore D, in modo da promuoverne indirettamente la ricandidatura. L’attività consistente nella pubblicazione e diffusione di opuscoli insieme a lettere di accompagno di D è, tuttavia, da ritenersi rientrante tra quelle istituzionalmente devolute al Centro, in ragione del fatto che, comunque, l’attività svolta da esso comprendeva anche quella divulgativa in favore delle Associazioni operanti nel settore. Le affermazioni di B, invece, sono da ritenersi diffamatorie in quanto, lungi dal riportare in maniera oggettiva e fedele i fatti, insinuano un comportamento illecito di D, addebitandogli, di fatto, un abuso d’ufficio. B ha fatto apparire l’attività dell’assessorato i materia di politiche sociali come uno sfruttamento illecito di risorse per scopi personalistici, strumentalizzato esclusivamente a favorire la campagna elettorale di D. “Nel caso in esame difetta dunque il requisito della veridicità di fatti, atteso che i fatti riportati da B sono stati riferiti in modo incompleto, allusivo, mediante l’impiego di terminologia fuorviante e tendenziosa, e omettendo altri fatti strettamente collegati ai primi, così da mutarne il significato, ingenerando nell’ascoltatore una falsa rappresentazione della realtà”. Le stesse considerazioni valgono per quanto riguarda l’accusa di B, rinvenibile nelle affermazioni dello stesso durante l’intervista televisiva, di essere stato prima demansionato dall’incarico previsto dal suo contratto di lavoro e poi licenziato, apparendo dal contesto dell’intervista che ciò era avvenuto per ritorsione. Anche su tale punto la ricostruzione del Giudice di primo grado non è sostanzialmente incontestata. Non può essere condiviso, infatti, quanto sostenuto dall’appellante principale, e cioè che B non aveva inteso imputare direttamente alla persona di D il proprio preteso demansionamento o il mancato rinnovo del contratto, riguardando le sue dichiarazioni l’ambiente politico- istituzionale dell’assessorato, in quanto è evidente che tali dichiarazioni, inserite nel contesto complessivo della vicenda narrata, rimandano a condotte riferibili  D. L’appello non va condiviso neppure nella parte in cui deduce l’assenza di  una responsabilità di A per le dichiarazioni rese da B, giornalista dipendente di A. Sul punto la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che sussiste la responsabilità civile di A “ai sensi dell’articolo 2049 c.c., per il comportamento del suo dipendente giornalista, che ha recepito alcune informazioni di natura tecnica e scientifica e non si è attenuto agli obblighi professionali […] Il mezzo televisivo per la sua forza di suggestione, e per il maggior impatto col pubblico […] richiede al giornalista un maggior grado di prudenza nell’accertare la verità dei fatti che possono incidere negativamente sui diritti personali e patrimoniali dei soggetti; attraverso controlli, cautele, riscontri ed accertamenti e soprattutto verifica dei risultati, precisando al pubblico l’esatta portata ed i limiti della notizia” ( Cassazione civile, sez. III, 11/06/1992, n. 7154).  Secondo la Cassazione penale (Cassazione penale, sez. V, 21/01/2016, n. 24727), sul giornalista che effettua l’intervista in differita grava l’obbligo di controllo di veridicità della notizia comunicata e diffusa. Lo stesso obbligo non grava sul giornalista che effettui l’intervista in diretta, in quanto la notizia viene diffusa nello stesso momento in cui viene appresa dall’intervistato, e non è possibile, perciò, controllare ciò che ancora non si conosce.  Nel caso di specie, il contenuto dell’intervista non è stato appreso dal giornalista B direttamente in trasmissione, in quanto lo stesso B ha riferito di avere preso contatti con la redazione della trasmissione X via mail. A, a sua volta, non ha provato di aver compiuto i controlli riguardo l’attendibilità della fonte e non si è premurato di ascoltare D, nonostante le regole di corretta deontologia richiedano che “quando la notizia da diffondere possa essere lesiva dell’altrui reputazione, una verifica preliminare va fatta, quando ciò è possibile, interpellando la persona che da essa risulterebbe lesa, anche per riceverne eventuali giustificazioni o spiegazioni”.
I motivi dell’appello principale e di quello incidentale concernenti la liquidazione dei danni in favore di D, vengono poi esaminati dalla Corte di Appello di Ancona sotto il profilo del quantum.
“Premesso che la valutazione del danno non può che essere fatta secondo criteri equitativi, nel caso di specie la quantificazione dei danni effettuata dal giudice di prime cure è corretta, essendo stati debitamente valorizzati una serie di parametri quali la delicatezza del ruolo pubblico, al quale appaiono riferibili le dichiarazioni, rivestito dal danneggiato, l’eco delle affermazioni diffamatorie, inserite in un programma trasmesso in prima serata televisiva e di notoria, rilevante audience”, la  liquidazione effettuata dal primo Giudice appare corretta e non suscettibile di subire mutamenti in senso riduttivo o ampliativo in ragione delle motivazioni poste a fondamento delle impugnazioni. E’ infondato anche il motivo di appello con il quale si censura la mancata applicazione della sanzione pecuniaria ex art. 12 della legge 8 febbraio 1948 n.47, avendo il primo Giudice correttamente applicato il principio secondo cui la l. 8 febbraio 1948 n.47 art.12 nel prevedere un’ipotesi eccezionale di pena pecuniaria privata per la diffamazione a mezzo stampa, non è suscettibile di applicazione analogica a casi diversi da quelli contemplati e, conseguentemente, in mancanza di un espresso richiamo alla suddetta disposizione da parte della l. 7 agosto 1990 n. 223, la quale disciplina i reati commessi col mezzo televisivo, non è applicabile a questi ultimi. Infine, in ordine alla censura concernente la situazione di rigetto della richiesta di pubblicazione dell’emananda sentenza, non si ritiene di accogliere la relativa domanda, in quanto, tale forma di tutela in forma specifica si rivela sostanzialmente inutile al fine di attuare un contributo al risarcimento del danno subito da D, essendo oramai trascorso un considerevole lasso di tempo dall’epoca dei fatti. L’impugnata sentenza va quindi integralmente confermata e l’esito della controversia giustifica una regolamentazione delle relative spese di lite in termini di integrale compensazione.


Per questi motivi, la Corte di Appello di Ancona respinge l’appello principale proposto da A e quello incidentale proposto da D .

 

© Artistiko Web Agency